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Mentre la brutale aggressione israeliana a Gaza si intensifica, continuano a circolare voci di un possibile grande accordo con al centro l’Egitto: l’assorbimento da parte di quest’ultimo paese di un numero consistente di profughi palestinesi della striscia in cambio dell’alleggerimento del massiccio debito del Cairo, che ammonta a una cifra superiore ai 160 miliardi di dollari.

 

Dopo oltre quattro mesi di guerra, il parlamentare egiziano Mustafa Bakri ha affermato che il presidente, Abdel Fattah al-Sisi, ha respinto un’offerta di 250 miliardi di dollari proveniente da paesi stranieri come compenso per consentire agli abitanti di Gaza di riversarsi nella penisola del Sinai.

Nonostante i ripetuti rifiuti del Cairo ad accettare il trasferimento forzato dei palestinesi in territorio egiziano, le autorità di governo di questo paese continuano a essere pervase dai timori di un possibile afflusso di palestinesi in fuga dalle atrocità israeliane, così come dal fatto che il futuro ritorno nella loro terra diventi impraticabile, nonché dalla destabilizzazione delle aree di confine del Sinai.

Con il conflitto in fase di espansione, appare ormai evidente che per molti leader arabi la causa palestinese è diventata un problema secondario, se non addirittura uno spiacevole inconveniente.

Il piano: denaro in cambio del trasferimento

Mentre le forze armate di Israele avanzano verso il territorio più a sud della striscia – Rafah – immagini e video pubblicati dalla Sinai Foundation for Human Rights rivelano che l’Egitto ha iniziato la costruzione di una zona chiusa al confine con Gaza, presumibilmente destinata a dare rifugio ai palestinesi in fuga dall’annunciata operazione israeliana a Rafah.

Le immagini mostrano operai che manovrano macchinari pesanti per installare barriere di cemento e torri di sicurezza attorno a una lingua di terra sul versante egiziano del valico di Rafah.

Ci sono pochi dubbi che il trasferimento di massa dei palestinesi rappresenti una minaccia per la sicurezza nazionale dell’Egitto nel lungo termine. Tuttavia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi sembrano dare la priorità a questo obiettivo israeliano, mettendo quindi l’Egitto di fronte a un dilemma:

Continuare a respingere l’idea del trasferimento oppure accettare un esodo di massa – sia pure temporaneo – verso il Sinai in cambio di incentivi economici che coprano una parte rilevante del proprio debito, il quale a sua volta minaccia l’economia egiziana in maniera significativa e, di conseguenza, la stessa coesione sociale del più popoloso dei paesi arabi.

Il Cairo è complice del blocco israeliano imposto a Gaza fin dal 2007 e ha svolto un ruolo attivo nel contrastare la resistenza palestinese, ad esempio allagando i tunnel che collegano la striscia al Sinai.

L’adesione di Riyadh al processo di normalizzazione con Israele costituisce un pericoloso precedente che porta a compimento un desiderio da tempo coltivato da Washington e Tel Aviv, ovvero l’integrazione dello stato ebraico in Asia Occidentale, a discapito della Palestina.

Le variate dinamiche sono il risultato dello sforzo comune per mettere da parte la causa palestinese in cambio di garanzie regionali di natura politica ed economica concesse dagli Stati Uniti. Parlando alla recente Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, il segretario di Stato USA, Antony Blinken, ha dichiarato che esiste una “opportunità straordinaria” per il riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi nei prossimi mesi.

Risulta chiaro che Riyadh ha deciso, fin dall’inizio della guerra a Gaza, di preparare il clima interno per la fase post-Gaza, ossia la fase della normalizzazione e dell’accordo. L’Arabia Saudita si è rifiutata di posticipare feste e celebrazioni, mentre ha impedito agli artisti di manifestare solidarietà ai palestinesi e punito coloro che hanno espresso vicinanza ai martiri di Gaza, arrivando persino a vietare di indossare la “kefiah” palestinese al Mawsim al-Riyadh, un festival annuale finanziato dallo stato.  

Il meticoloso piano saudita per consegnare la questione palestinese agli annali della storia si compone di cinque fasi strategiche:

La prima è la separazione degli affari domestici dalla crisi di Gaza. La seconda consiste nella promozione della soluzione dei “due stati” come preludio alla normalizzazione con Israele. La terza costringere altri paesi arabi a seguire l’esempio isolando le voci contrarie. La quarta facilitare il trasferimento dei palestinesi, sia nel breve che nel lungo periodo, facendo leva su incentivi economici e non. A dicembre, ad esempio, il giornale francese Le Monde aveva rivelato una controversa proposta franco-saudita per fermare la guerra nella striscia esiliando i leader e i membri di Hamas in Algeria. La quinta va collegata infine allo sforzo del regno wahhabita di promuovere legami economici con Israele per fare dello stato ebraico una parte integrante del sistema mediorientale.

Il successo dei piani di Riyadh dipende dalla complicità degli attori chiave – Israele ed Egitto – il cui consenso è fondamentale per la normalizzazione dei rapporti e la messa in atto del trasferimento dei palestinesi.

Chiudere definitivamente il “file” palestinese e stringere legami con Tel Aviv è un’ambizione condivisa da sauditi ed Emirati Arabi, con l’obiettivo di incassare benefici politici ed economici. Malgrado le dichiarazioni ufficiali nelle quali si respinge l’ipotesi del trasferimento, le manovre che avvengono dietro le quinte suggeriscono una realtà diversa che prospetta la graduale dissoluzione della causa palestinese.

Arabia Saudita ed Emirati Arabi comprano la sovranità egiziana

L’improvviso entusiasmo di Riyadh nel rafforzare i rapporti economici con Il Cairo appare evidente. Grazie a iniziative senza precedenti di entrambi i governi, gli investimenti reciproci sono destinati a crescere, con l’Arabia Saudita che punta a fare aumentare gli scambi commerciali fino a 100 miliardi di dollari.

Collaborazioni recenti includono un accordo da 4 miliardi di dollari con la società ACWA Power, quotata in Arabia Saudita, per il progetto Green Hydrogen. Inoltre, iniziative strategiche come il memorandum d’intesa tra il ministero della Produzione Militare egiziano e l’Autorità Generale saudita per le Industrie Militari, assieme ad accordi in materia di risorse petrolifere e minerarie, indicano un’integrazione economica sempre più profonda.

I negoziati in corso tra Il Cairo e Abu Dhabi per sviluppare una vasta porzione di terra lungo la costa mediterranea dell’Egitto, valutata potenzialmente in 22 miliardi di dollari, potrebbero a loro volta rappresentare una svolta decisiva per la martoriata economia egiziana.

Salvagente economico o fardello politico?

Non ci sono dubbi che l’interesse saudita-emiratino nell’investire in Egitto sia motivato principalmente dal timore di un collasso economico. Evento che potrebbe destabilizzare un alleato arabo cruciale per gli equilibri della regione.

La notizia in circolazione è quindi che i due regimi del Golfo abbiano offerto all’Egitto l’alleggerimento del suo enorme debito in cambio dell’accettazione entro i propri confini dei palestinesi di Gaza. L’offerta sul tavolo per la cancellazione di 160 miliardi di dollari di debito egiziano previo trasferimento di 100 mila rifugiati dalla striscia include anche gli Stati Uniti e ha un pericoloso precedente storico. Nel 1991, Washington cancellò il debito dell’Egitto in cambio dell’appoggio alla coalizione guidata dagli Stati Uniti contro l’Iraq.

Il gigantesco debito egiziano è il secondo al mondo nella classifica di quelli a maggiore rischio di default, dopo l’Ucraina. Va ricordato che i paesi arabi detengono una parte significativa di questo debito, con circa il 20% nelle mani di Arabia Saudita ed Emirati Arabi

Il tracollo economico dell’Egitto non è nell’interesse né dei regimi del Golfo Persico né degli alleati statunitensi, visto il peso strategico del Cairo nel mondo arabo e in Nordafrica. Di conseguenza, la risoluzione della questione palestinese è una priorità condivisa da Arabia Saudita, Emirati Arabi e Stati Uniti.

Gli sforzi di questi ultimi paesi per la normalizzazione dei rapporti con Israele sono allineati alla loro più ampie strategie geopolitiche, che hanno come obiettivo il contenimento dell’Iran e la neutralizzazione dell’Asse della Resistenza. Nonostante la retorica dell’Arabia Saudita, che sostiene di appoggiare la normalizzazione con Israele solo in caso di riconoscimento dei diritti palestinesi, il comportamento tenuto fin dall’inizio della guerra a Gaza conferma che Riyadh sta lavorando per mettere da parte la questione palestinese e ostacolare qualsiasi impegno che possa portare a un esito positivo in tal senso.

Nel lungo periodo, la creazione di uno stato palestinese costituisce una minaccia per coloro che puntano a liquidare definitivamente la questione palestinese. Perciò, la prospettiva di trasferire i palestinesi in Egitto, nonostante gli ostacoli che implica, resta una strategia percorribile per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi.

Con gli interessi geopolitici che si intrecciano agli imperativi economici, il destino di milioni di palestinesi è appeso a un filo, soggetto ai capricci delle grandi potenze e ai loro calcoli strategici.

 

di Mohamad Hasan Sweidan

Fonte: The Cradle