Manca soltanto poco più di una settimana all'appuntamento del voto referendario
del 25 giugno. E' un voto decisivo, per certi aspetti forse più importante
di quello che è stato il voto delle elezioni politiche, ma la percezione
di questa straordinarietà ancora non c'è. Si avverte invece una
pericolosa indifferenza, distanza, non consapevolezza, quasi che questo voto
poco o nulla abbia a che fare con i problemi concreti delle persone e persino
con le questioni più strettamente politiche. Anche a sinistra sembra
che aver cacciato Berlusconi sia la sola, vera cosa che conta; per il resto
le discussioni sulla legge costituzionale non importano un granché, troppo
complicate. E poi, non serve neanche il quorum, non ci si deve quindi sentire
preoccupati e impegnati più di tanto: se si deve partire per il mare,
non sarà poi davvero un problema
La situazione è difficile, per nulla scontata. Ma, allora, cosa stiamo
facendo per vincere quella che è per davvero la madre di tutte le battaglie?
Quali messaggi abbiamo deciso di dare per scuotere e mobilitare le coscienze,
far uscire il dibattito dalla tecnicalità degli "addetti ai lavori"?
I Comitati per la difesa della costituzione, sì, sono mobilitati
da tempo; presenze autorevolissime, messaggi chiari e netti, di allarme democratico,
di impegno civile contro quella che è non una riforma, ma una controriforma
della costituzione. Ma i partiti? I sindacati? La mobilitazione soffre di una certa inerzia e gli sforzi sono fiaccati da
quello che appare come un insidioso e pericoloso nuovo approccio alla battaglia
referendaria. Tra le forze politiche che pur si sono strenuamente opposte in
Parlamento contro la legge, sembra si voglia appositamente tenere i toni bassi,
evitare lo scontro. Anzi, si dice esplicitamente che questo voto non deve essere
caricato di una valenza politica, che non è un voto politico, che in
fondo la modifica della Costituzione è un'esigenza vera, reale. Insomma
una brutta legge, confusa, inapplicabile, che affronta nel modo sbagliato temi
che, però, sono veri. E che affronteremo poi, magari "insieme".
L'impressione è che, proprio davanti al traguardo di questa difficilissima
corsa, si decida di cambiare cavallo e fantino. Con l'immediato risultato di
depotenziare la carica di opposizione politica, culturale e ideale che è
invece necessaria per mobilitare le coscienze e l'iniziativa. Perché?
Eppure gli argomenti usati nei mesi scorsi dell'opposizione parlamentare erano
stati chiarissimi: questa controriforma costituzionale non è un provvedimento
tecnicamente sbagliato, ma politicamente devastante; non è estranea,
bensì strutturalmente intrinseca alle politiche del governo Berlusconi.
E' l'ultimo atto di una strategia di restaurazione sociale, culturale, che impone
anche la trasformazione in senso autoritario delle nostre istituzioni, per una
definitiva ricomposizione dei rapporti sociali, tra le classi. E' il progetto
politico di una destra che vuole riscrivere il patto sociale iscritto nella
carta costituzionale. Modificare 53 articoli della seconda parte, che riguarda
la forma dello Stato e l'assetto istituzionale, significa intervenire anche
sulla prima, che pure resta formalmente invariata perché il modello istituzionale
è coerentemente connesso con il modello sociale, le norme e i principi
ordinatori del modello economico-sociale, con i diritti civili, sociali, democratici.
La controriforma è una ferita profonda all'assetto democratico delle
nostre istituzioni e alla vita concreta, all'esigibilità diretta dei
diritti sociali dei cittadini: è, complessivamente, una trasformazione
di sistema.
Per chi suona la campana?
La devolution, che prevede la competenza esclusiva alle regioni in materia
di sanità e di istruzione e quindi la possibilità di 21 diversi
modelli sanitari e di istruzione, impone un'accelerazione devastante ai processi
di smantellamento dei sistemi pubblici di protezione sociale. Significa la rottura
del patto sociale e di unità nazionale iscritto nella Costituzione.
Aumenteranno le disuguaglianze territoriali e sociali. La devolution
è esattamente questo: lo strumento moderno di politiche antiche, di discriminazione,
di esclusione, di classe. E' costituzionalmente eversiva, perchè centrifuga
rispetto al sistema. Perché il nostro dettato costituzionale lega indissolubilmente
le forme e i poteri istituzionali alla natura e alle finalità del nostro
sistema di protezione sociale; garantisce il principio dell'universalità
dei diritti attraverso il sistema pubblico di protezione sociale; affida il
principio della responsabilità statale per il soddisfacimento dei bisogni
primari individuali e collettivi al sistema solidaristico della fiscalità
generale; traduce il principio dell'uguaglianza con i contenuti redistributivi
del modello economico-sociale.
Con la devolution si costituzionalizza la rottura dell'universalismo
delle prestazioni, per piegare il modello istituzionale ai sistemi assicurativi,
per destrutturare anche culturalmente l'idea stessa della cittadinanza, affidando
all'appartenenza locale la fonte primaria dei diritti sulle risorse.
La devolution è cosa seria, serissima e sbaglia chi minimizza,
insistendo sull'impraticabilità della proposta, o chi si contrappone
con un'idea forte, ancora più forte, di federalismo. La devolution
non è stata scritta sotto la spinta dei cosiddetti bravi amministratori,
ma rispecchia gli interessi economici e di potere delle regioni forti, che nella
rottura dell'unità nazionale cercano di conquistare direttamente la competitività
nei mercati europei ed internazionali e rappresenta la spinta dei ceti sociali
più garantiti, che vogliono fuoriuscire dall'unitarietà del sistema
di solidarietà fiscale.
Cosa serve allora concedere alle destre che, sì, è vero, la costituzione non è intoccabile e che anche noi la vogliamo modificare? L'argomento vincente, capace di mobilitare le coscienze, è davvero quello che è una legge soltanto pericolosa perché aumenterà i conflitti istituzionali, potrà ingolfare e paralizzare l'attività legislativa? Di fronte a questo furore controriformatore, che le destre pretendono di fare passare come coraggio e realismo politico, di fronte a un'operazione politica che vuol far apparire logico, normale ciò che è invece costituzionalmente eversivo, come si risponde? Che è vero, "la modernità impone la necessità del cambiamento"?
Questi sbandamenti ripetono purtroppo errori del passato, quando alcuni erano imprigionati nell'idea neutra della modernizzazione. Una neutralità che pone tutti nella obbligata condizione di cambiare, ma che resta incapace di leggere e denunciare proprio gli elementi ad essa intrinseci di autoritarismo e di derive antidemocratiche: democrazia di opinione, verticalizzazione sempre più forte dell'esecutivo, leaderismo, depauperamento democratico dei soggetti storici della rappresentanza.
Hanno invece ragione i costituzionalisti: una riforma costituzionale è atto estremo. L'esigenza di modernizzazione vale per le leggi, per i vari settori dell'ordinamento, non è così per la Costituzione. La Costituzione "non invecchia", ma rappresenta in una comunità politica "l'ordine di fondo", ordine dei diritti e dei doveri, dei poteri e delle garanzie, destinato a reggere nel tempo la vita della comunità, al di là di ogni modernizzazione della vita sociale, economica, politica. Le costituzioni nascono per essere durevoli, perché non devono inseguire i mutamenti, ma accompagnare invece il paese nella sua evoluzione. E la costituzione "non è rigida", causa di impaccio all'efficienza del sistema istituzionale e politico. I problemi di funzionalità del sistema politico non si risolvono con le riforme costituzionali: non c'è impossibilità, ma incapacità della politica. I problemi della politica devono essere risolti dalla politica, con i suoi strumenti. L'effetto finale dell'ingegneria costituzionale non riduce le cause dell'instabilità, ma riduce invece il tasso di democraticità reale del sistema. Inserire in Costituzione il principio di stabilità non ha alcun senso: i problemi conseguenti e correlati al sistema elettorale non sono problemi costituzionali, ma squisitamente politici e quindi da affrontare con specifiche leggi elettorali. Che dovrebbero, Costituzione alla mano, rappresentare due elementi: rappresentatività e stabilità.
Questo dobbiamo ribadire. La controriforma è tale perché è una distorsione dell'assetto democratico dei poteri e delle garanzie; perché è sottesa a una concezione minimalista della democrazia, che la riduce a pura procedura per la scelta e il cambio dei governi. Perché attacca al cuore la cultura democratica e quella dell'uguaglianza. Perché rompe l'unità del paese e l'universalità del sistema dei diritti.
E la sinistra?
Perché allora tra noi così tanto si dà ascolto all'enfasi della necessità del cambiamento? Si offre persino l'idea di una futura bicamerale o, ancora di più, di un'Assemblea Costituente? E su cosa? Sul premierato ci sarà possibilità di intesa? Magari per un premierato non più "assoluto", certo; che non potrà più sciogliere le Camere, ma comunque "forte", magari eletto dal popolo? E' questo il messaggio che dovrebbe contrastare quella deriva democratica, plebiscitaria, che sollecita l'investitura popolare come fonte di legittimazione del suo potere, quello che di fatto si delinea come il bonapartismo del XXI secolo?
Di questo ci si deve preoccupare: alla vigilia del voto referendario l'opposizione alla controriforma sbanda sul "mito" delle riforme costituzionali, con il rischio di depotenziare quello che è stato - e resta - il livello più alto dello scontro politico di questi decenni. E' un'opposizione che insiste sul merito della controriforma, ma che non riesce a gridare l'allarme democratico. Un provvedimento sbagliato ma "normale"? Un voto importante ma non politico? Quasi una normalizzazione dello scontro, mentre è in atto il progetto politico costituzionalmente eversivo delle destre?
C'è il rischio che la campagna referendaria non solo resti così oggettivamente imprigionata nella tecnicalità, senza il respiro di una battaglia ideale che possa parlare alla responsabilità e all'impegno civile dei cittadini. C'è soprattutto il rischio che questo voto stia diventando la prova generale di grandi manovre, di un'apertura al centro, di un dialogo che, più che essere strumento ovvio di formale rispetto reciproco istituzionale, diventi terreno di possibili avvicinamenti politici.
Come sempre, sembra che per vincere ancora una volta la priorità resti l'elettorato centrista. E quello di centrosinistra? E l'Italia?