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di Sara Nicoli

Il governo dice che si tratta di un buon pareggio. I tassisti dicono che si tratta di una loro vittoria. Chi ha perso, alla fine, sono stati i cittadini. Siamo stati noi, in buona sostanza, quelli che hanno dovuto pagare le conseguenze più pesanti della vertenza, appena conclusa, tra il governo in vena di liberalizzazioni e i tassisti più violenti e scalmanati d'Europa. Per ben tre settimane le principali città italiane sono state trasformate in gironi dell'Inferno dai tassisti decisi ad ottenere con ogni mezzo quello che poi, alla fine, hanno davvero ottenuto: stralciato dal decreto il previsto cumulo delle licenze e via anche la famigerata doppia targa che avrebbe consentito un reale aumento delle auto pubbliche sul territorio. Di contro il governo, che sembrava deciso a proseguire con la voce grossa e il pugno di ferro, si è accontentato di un compromesso poco onorevole, portando a casa la possibilità di un aumento delle turnazioni sull'arco orario della giornata che i tassisti potranno governare in autonomia, casomai facendo guidare al loro posto qualche parente stretto. Un risultato poco onorevole, di cui il governo non ha nulla di cui vantarsi. Chi ha vinto veramente questa surreale partita di un mancato cambiamento sul fronte delle liberalizzazioni dei taxi è stata senza dubbio la strategia della violenza e dell'aggressione messa in atto fin da subito dalle frange più dure della categoria delle auto bianche. E' passato, insomma, il principio che chi alza di più la voce e picchia i pugni sul tavolo, alla fine ottiene di più, in barba a qualsiasi principio di solidarietà sociale e di vera mediazione sindacale. L'intimidazione messa in atto dai tassisti, nelle ore cruciali della trattativa, con le auto bianche asserragliate sotto il ministero, pronte a ripartire minacciose verso una nuova manifestazione sempre più pesante e sempre più violenta, alla fine ha convinto Bersani a piegarsi a più miti consigli per evitare che tutto tracimasse in una situazione ingestibile sul fronte dell'ordine pubblico. E' sgradevole rilevare come, in questa situazione, abbia perso soprattutto il sindacato. O meglio: ha perso un certo modo di fare sindacato che aveva come suo principale fondamento la salvaguardia dei lavoratori nell'ottica di un miglioramento di un bene sociale condiviso. Ma questa non è una colpa che si può imputare al governo. Non si possono, infatti, considerare sindacalisti un branco di agitatori che come unica argomentazione portano sul tavolo della trattativa la minaccia di rompere i nervi a tutto il mondo legittimando ogni genere di violenza pur di continuare ad avvalersi dei privilegi di lobby.

Altro che sindacalisti. Hanno picchiato più di un giornalista che si era avvicinato alle loro auto per fare il proprio mestiere di cronista. Hanno inveito contro turisti e cittadini comuni con gli occhi accecati dalla paura e, talvolta, persino dall'odio, colpiti da una inspiegabile sindrome d'assedio ai limiti dell'irrazionalità. Hanno gridato frasi scomposte contro i loro stessi rappresentanti più miti e laboriosi, solo perché incapaci di coniugare il buon senso con la necessità di proseguire nel dialogo. Nessuno mette in dubbio che qualche buona ragione i tassisti l'avessero pure, ma il modo in cui hanno portato avanti le loro istanze è, senza dubbio, una brutta pagina di politica sindacale. Da cancellare.

I primi a rendersene conto, con un tardivo, quanto auspicabile, esame di coscienza, dovrebbero essere proprio i tassisti. L'immagine della loro categoria esce a pezzi da questa vertenza. E a farne le spese sono soprattutto le persone perbene che, non abbiamo dubbi, sono la maggioranza tra coloro che guidano le auto bianche. Se i tassisti, prima che tutto questo succedesse, erano comunque una categoria sociale non proprio simpatica al resto dell'opinione pubblica, l'aver lasciato gestire a pochi facinorosi e violenti una situazione tanto delicata, ha certamente contribuito ad alienare le residue simpatie dei loro clienti quotidiani.

C'è, infine, un altro aspetto della situazione che spaventa. E' stato chiaro, fin dalla presentazione del decreto Bersani, che le restanti 11 lobby colpite dall'ipotesi di liberalizzazione abbiano lasciato andare avanti i tassisti per tastare la reale risolutezza del governo nel portare a termine una maggiore competitività del mercato. La soluzione della vertenza dei taxi ha dato a tutti l'opportunità di pensare che il fronte del governo non sia poi così granitico e compatto rispetto alla questione. E che, soprattutto, la messa in ponte di agitazioni e di manifestazioni di lotta dure e senza sconti possano davvero rappresentare la chiave di volta per ottenere che nulla cambi. L'esempio dei tassisti, insomma, ha tutte le caratteristiche per dimostrarsi contagioso in breve tempo. Certo, nessuno si immagina che avvocati, notai, farmacisti e commercialisti scendano in piazza a picchiare i giornalisti, minacciando le folle dei loro ipotetici clienti (l'intera popolazione nazionale, ovviamente) per far tornare indietro il governo. Ma, comunque, la "lezione" dei tassisti potrebbe essere mutuata da altre categorie, più avvezze all'aggressione che al dialogo per indole e per storia.

E l'unico modo che intravediamo per evitare che questo possa accadere, in un prossimo futuro, è che per primo il governo si rifiuti di riconoscere come controparti valide al tavolo della trattativa una costellazione di sigle che, messe tutte insieme, non sommano tra di loro i voti di una sola sezione di un sindacato unitario. Se, insomma, non si vuole che una sorta di antisindacato violento faccia danni soprattutto a chi intende tutelare, è necessario che per primo il sindacato vero ricostruisca le proprie basi di rappresentanza, leale e costruttiva, allontanando dalle proprie sedi chi è solo bravo ad agitare la piazza e a fare uso di una violenza insensata e controproducente. Ne va dell'evoluzione, sia economica che politica, di un intero Paese.