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di Fabrizio Casari

Francesco Belsito si chiama. L’uomo che dovrebbe assumere su di sé tutto l’onere della fine dell’onore leghista è l’ex tesoriere dei lumbard. Accusato di aver versato a più riprese denaro alla famiglia Bossi ed alla sua ombra storica Rosy Mauro, d’intrattenere rapporti con la ‘ndrangheta calabrese, il funzionario leghista è entrato nello stesso film noir di Lusi, l’altro esemplare che si vorrebbe solo a decidere cosa fare dei soldi del partito.

E così come Rutelli e soci si sono sperticati a dire che della movimentazione dei soldi di Lusi nulla sapevano, anche l’uomo della canottiera ha detto no: non centra niente lui con i soldi di Belsito. Né lui né il figlio, denominato “Trota” dal padre in omaggio alla fervida intelligenza di cui dispone. Lo stesso padre che si è perciò premunito di farlo eleggere dove possibile; non solo e non tanto per il proseguimento della stirpe, quanto perché preoccupato che dovesse vivere con le competenze delle quali dispone.

Come uno Scajola qualsiasi, anche Umberto Bossi dice che la ristrutturazione della villa di Gemonio è stata fatta a sua insaputa. Un male ormai classico della politica italiana. Del resto succede sempre così: uno non fa a tempo ad allontanarsi un attimo da casa che qualcuno - gratuitamente e a sua insaputa - gliela ristruttura o, addirittura, gliela compra nuova. Quanti di noi si sono trovati alle prese con questo inconveniente, con questa cattiva comunicazione che scambia il mandato ad annaffiare le piante e a raccogliere la posta con la ristrutturazione della casa?

Insomma è tutta colpa di Francesco Belsito. Che ha dimostrato fantasia imprenditoriale discutibile, come quando investiva milioni di euro in Tanzania e a Cipro e pare mostrare risentimento personale per essere stato messo in disparte dall’Umberto, al quale - sembra- offriva ogni forma di sostegno economico a lui e famiglia per ingraziarselo e tornare in auge nel partito. E allora, secondo l'accusa, via con il denaro per la scuola della moglie, la baby pensionata Manuela Marrone; quindi quello per aiutare il Trota a prendere uno straccio di diploma che, non riuscendo a raggiungere come gli altri milioni di studenti, diversamente sarebbe diventato richiedibile solo per anzianità; e poi le multe di Riccardo Bossi, l’altro figlio, i lavori di casa paterna e persino la sistemazione dei conti di Rosy Mauro, che d’influenza sul capo, com’è noto, ne ha sempre avuta molta. Era questo il cerchio magico?

E nelle indagini degli inquirenti viene coinvolta anche Nadia Dagrada, la segretaria del Senatur. Prima intercettata, poi perquisita e quindi interrogata, la signora pare si lamentasse molto della stravagante famiglia Bossi. Al pm Henry John Woodcock, in nove ore d’interrogatorio ha lasciato intendere di voler dire tutto quello che sa. E se nelle intercettazioni telefoniche non era tenera con i familiari di Bossi, anche nell’interrogatorio avrebbe tenuto il punto: Belsito apriva i cordoni della borsa del partito per ingraziarsi il suo leader. Ma, secondo quello che avrebbe detto la segretaria amministrativa della Lega, mentre Umberto Bossi è sempre stato disinteressato al denaro e ai favori, i figli se ne sarebbero un po’ approfittati.

Le indagini chiariranno ruoli e responsabilità per tutti i protagonisti, mentre i leghisti riuniti sotto Via Bellerio sono in bilico tra rabbia e incredulità, suggestione di complotti e opportunità politica per la resa dei conti interna. Ma avvertono tutti,leghisti e non, che sulla faccia di Francesco Belsito, sulle sue spericolate operazioni e pessime amicizie, così come sulla tempesta che ha investito la famiglia Bossi, finisce la storia breve e nient'affatto gloriosa della Lega.

Era il partito del “celodurismo”, quello dei cappi sventolati in Parlamento, della diversità padana, dell’inflessibilità xenofoba, della secessione burletta e della rivolta fiscale, della Padania onirica e degli sghei, che teneva insieme la Vandea e miss Padania. Ora si scopre invece un altro volto: quello del maneggio del denaro senza guardare troppo per il sottile, che assegna posti nelle banche e nelle fondazioni, negli enti di ogni titolo e grado, che sforna mazzette e ristruttura le case del boss a spese dei contribuenti, che tratta volentieri con i meridionali ma solo se appartenenti alla ‘ndrangheta, che spernacchia la bandiera e mostra il dito medio al paese. Un ricettacolo di furbetti padani beccati con le dita nella casuela. Sarà colpa di Roma ladrona se l’ampolla del Po tracima acqua sporca?