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di Agnese Licata

Privatizzare la Rai. A partire da RaiUno. E' la “palla in tribuna”, lanciata da Pier Ferdinando Casini, a proposito del futuro della televisione di Stato. Che un’idea del genere provenga da uno degli orgogliosi eredi della Dc - il partito che ha fatto della lottizzazione, del legame tra politica e servizio pubblico, la regola e il modello a cui, ancora oggi, tutti continuano a “ispirarsi”, a destra come a sinistra – è quanto meno singolare. Ma non stupisce neppure. E per due ordini di motivi, uno politico e l'altro squisitamente personale, intimamente legati tra loro. Il primo riguarda il tentativo del presidente Udc di riportare il tema della discussione intorno al servizio pubblico tv e di riproporre la privatizzazione Rai introdotta dalla Gasparri e che, invece, il governo vorrebbe accantonare – giustamente - una volta per tutte. Un modo, dunque, per mettere in difficoltà la coalizione di centrosinistra che sul tema del futuro ruolo della Rai nel panorama mediatico del Paese non è affatto coesa. Il secondo, invece, è legato al fatto che uno degli imprenditori italiani da sempre interessato ad entrare nel mercato televisivo come azionista è Gaetano Caltagirone, padre della sua attuale compagna Azzurra: e scusate se è poco. D'altra parte, ora i tempi sono diversi da quando il giovane delfino di Bisaglia sedeva sullo scranno più alto della Camera e la sua coalizione lavorava alacremente ad una legge Gasparri mirata al salvataggio di Rete 4 dalle spire delle sentenze della Corte Costituzionale e alla possibilità di aumento esponenziale del fatturato di Mediaset con l'introduzione del Sic (sistema integrato delle comunicazioni). Oggi c'è la necessità di ripensare l'ossatura della televisione generalista italiana e di rivederne il ruolo perchè, così com'è, non può reggere ancora a lungo all'urto delle piattaforme satellitari e della multiofferta del digitale terrestre: la torta pubblicitaria langue sempre più. Casini, dunque, ha lanciato la palla fuoricampo, quasi a voler imporre il confronto sul tema tra le forze politiche. Ma il difficile è ora capire se c’è, tra i banchi di Camera e Senato, la volontà d’imporre una svolta reale e concreta soprattutto alla Rai, al di là di facili slogan politici e dichiarazioni di convenienza. Che ce ne sia un disperato bisogno salta agli occhi di tutti, ogni volta che si schiaccia il power del televisore e ci si ritrova di fronte a reality, fiction e a un’informazione sempre più incapace di assolvere al suo ruolo (fatta eccezione per pochissime isole felici come “Report”). In tutto questo flusso di programmi, trovare differenze tra quello che è il servizio pubblico – che per definizione andrebbe gestito puntando sulla qualità - e le emittenti private - che invece mirano al profitto - diventa sempre più difficile.

Una delle tante sentenze deliberate dalla Corte Costituzionale negli anni 70-80 (quando, nonostante il monopolio pubblico delle frequenze, si lascia libero Berlusconi di creare il suo impero privato), fa una distinzione fondamentale tra pluralismo interno, pluralismo esterno e pluralismo passivo. Il primo, secondo la Corte, deve e può essere soltanto del servizio pubblico, della Rai e consiste nel dare voce e spazio all’interno dei palinsesti al maggior numero possibile di opinioni. Il secondo, invece, si riferisce all’emittenza privata, alla presenza on-air di un’ampia varietà di soggetti e fonti d’informazione. Se entrambi questi elementi sono presenti, il cittadino può godere del pluralismo passivo, ossia della preziosa possibilità di accendere il televisore sapendo di poter scegliere tra una molteplicità di punti di vista, di offerte. Questo, nel 1988, la Corte Costituzionale auspicava che il legislatore tutelasse. Adesso, a quasi vent’anni di distanza, il sistema televisivo italiano non vanta niente di tutto ciò: grazie a una pubblicità che detta legge, prevale solo l’omologazione; che si tratti di Rai, Mediaste o La 7, non fa molta differenza. Se si vuole la scelta, bisogna spostarsi dall’etere al satellitare; pagando, naturalmente.

Non si vede come una situazione del genere possa essere migliorata privatizzando il primo canale Rai o lasciando che questa rimanga un “poltronificio”. Il ministro Gentiloni si è impegnato a stilare un nuovo disegno di legge che modifichi gli assetti del servizio pubblico. Il dubbio che tutto si risolva cambiando, per l’ennesima volta, le sole modalità di elezione dei vari organismi direttivi Rai (che è poi quello che più sta a cuore alla politica), c’è ed è un dubbio forte.
Anche considerando la portata, non certo innovativa, dell’altro ddl targato Gentiloni, approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri la settimana scorsa e che punta a modificare la Gasparri. Tre gli interventi ipotizzati: eliminazione del Sic (Sistema integrato delle comunicazioni); una rete Rai e una Mediaset sul digitale terrestre entro 15 mesi dall’approvazione della legge; impossibilità per un editore di rastrellare più del 45% della pubblicità televisiva. Con tanto di precisazione da parte del ministro su quei presunti 450 milioni di euro che Mediaset perderebbe con quest’ultima norma: “Se il mercato regge l’aumento dei prezzi del dieci per cento, la perdita è pari a zero”.

E’ ovvio che la ricollocazione degli spot in una quantità ridotta avrà come risultato immediato l’aumento del costo di ogni singolo passaggio, dal momento che la necessità di essere presenti da parte delle aziende inserzioniste sarà a quel punto maggiore, non minore. Coerentemente quindi al rapporto tra domanda e offerta, la restrizione degli spazi ne aumenteranno il valore, quindi il costo da parte dei committenti. Di conseguenza, appare solo strumentale quanto “politicamente dovuto” da parte dell’azienda televisiva del capo dell’opposizione, lanciare l’allarme sulle ipotetiche perdite. Sarà il nuovo confezionamento dell’offerta globale da parte del gruppo Mediaset a bilanciare il tutto, considerando anche che, visti gli ascolti di Rete 4, andare sul satellite non risulterà poi così penalizzante. In ogni caso, è sul rastrellamento pubblicitario e la posizione dominante assunta da Mediaset nello stesso che i nervi sono scoperti, ma è anche il banco di prova di ogni possibile riordino del mercato. Appare quindi sfacciato il tentativo del proprietario dell’opposizione e dei suoi canali televisivi nel resistere a sottoporre la propria attività alle norme che, ovunque nel mondo, determinano la limitazione delle concentrazioni dominanti. Una invenzione capitalista, non certo socialista, checché ne dicano Confalonieri, Fede e Biondi, la trimurti della difesa imperiale di Arcore.

Il senso vero della novità potrebbe essere dato solo dall’abolizione dei tetti pubblicitari per la Rai, che ha permesso a Mediaset di rastrellare la maggioranza delle risorse pubblicitarie, anche a fronte di una offerta televisiva spesso persino peggiore di quella della Tv di Stato. Ma di questo non si parla. Semmai ci sarebbe da chiedersi se un ministro che sente l’esigenza di tranquillizzare Berlusconi, il principale responsabile del pessimo stato del sistema televisivo italiano, sarà in grado d’imporre una vera svolta alla Rai.