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di Giovanna Pavani

Che il mondo del lavoro sia sempre più precario è, purtroppo, un’ovvietà con cui si è costretti a confrontarsi quotidianamente. Oggi, in Italia, perdere il posto significa rimanere per strada. Ma la maggioranza dei lavoratori italiani un posto di lavoro vero, a tempo indeterminato, non l’ha mai conosciuto. E, forse, non lo conoscerà mai. E’ una situazione sempre più allarmante che ha convinto il Presidente della Repubblica ad intervenire, ancora una volta, su questo fronte. Lo ha fatto sollecitando con forza il Parlamento a perdersi meno in chiacchiere affrontando con determinazione, una volta per tutte, quella che sta diventando la prima emergenza nazionale al pari solo della devastazione dei conti sociali: la precarietà del lavoro.Parlando davanti ad un folto numero di studenti e docenti universitari che lo sollecitavano sulle speranze tradite e sull’inutilità di proseguire nella valorizzazione della loro cultura e della qualificazione professionale, visti gli sbocchi del mercato, Napolitano non ha usato mezze parole: “E’ un problema molto serio, mi auguro che possa essere affrontato al più presto nelle sedi giuste, cioè in Parlamento”. Ma la politica, in questo momento, sembra impegnata a pensare ad altro come del resto il governo e gli imprenditori. Il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, principe degli industriali senza aver mai prodotto niente, si dimena contro la Finanziaria per proteggere le rendite di quelli che una volta erano gli imprenditori del Paese e oggi solo finanzieri pieni di debiti. I dirigenti dei partiti e le loro diramazioni all’interno del governo spendono le giornate a studiare alchimie e travasi astrusi di ceti politici nello spasmodico tentativo di allargare sulla carta il bacino elettorale, ma senza che il minimo pensiero corra alle reali esigenze di quell’elettorato che vorrebbero blandire. E che di questo passo, li rinnegherà senza appello. Almeno si spera.

L’Italia ha fame di lavoro. E i cittadini italiani sono stanchi di farsi vampirizzare da imprenditori incapaci di concepire il rischio d’impresa e abili, invece, solo a far pesare i rischi sui lavoratori. Il senso del messaggio di Napolitano sta infatti tutto qui, nella necessità oggettiva di creare una legge di sistema che obblighi gli imprenditori italiani alle loro responsabilità sociale ed alla severa applicazione almeno di quelle norme che già esistono, a partire da quello Statuto dei Lavoratori di cui gente come Berlusconi farebbe volentieri carta straccia. La legge Biagi, d’altra parte, ne è stato un esempio illuminante. Ma la politica, anche a sinistra, sembra assente, proclami del momento e di convenienza a parte. Eppure i dati dell’emergenza parlano chiaro. Il popolo dei precari, in Italia, è un mare che si ingrossa. E che va a sfiorare la cifra di 1 milione e 690.000 unità.

Un esercito di lavoratori, con scarsi diritti e pochissime certezze, di cui ora, grazie ad una duplice indagine condotta dalla Cgil in collaborazione con l'Università la Sapienza di Roma, é possibile, finalmente, tracciare un profilo più preciso. Secondo i dati, in Italia sono 1.475.111 i lavoratori parasubordinati attivi iscritti, nel 2005, alla gestione separata Inps. A questi, vanno aggiunti 209.960 lavoratori con partita Iva individuale; un esercito, pure questo, in crescita. Il totale parla chiaro: 1.685.071 lavoratori sono sostanzialmente precari, seppure con le dovute differenze. Il vero zoccolo duro degli atipici, infatti, é costituito da 964.436 lavoratori, il 65% del totale dei parasubordinati, che ha un reddito che non supera i 9mila euro l'anno e, dunque, vive ai limiti della soglia di povertà. E in un affresco così ignobile non poteva mancare una ulteriore discriminazione: quella di genere. Le donne guadagnano infatti la metà degli uomini.

Il mondo del precariato è quindi un piccolo esercito, composto da soggetti che vanno dagli arcinoti co.co.co e co.co.pro. (che sono il 77,38%) fino ai venditori porta a porta, passando per i collaboratori free-lance dei giornali. Di questo zoccolo duro, sono 803.588 le persone a rischio precarietà, cioè l'80%. Sono lavoratori monoreddito, legati ad un solo committente, che vengono reclutati dalle aziende con contratti flessibili dietro cui, però, tenuto conto degli orari di lavoro e delle mansioni svolte, si nasconde une vero e proprio popolo di dipendenti, mascherati da collaboratori.

Lo zoccolo duro del precariato é composto per lo più da donne, nel 57% dei casi, che, peraltro, guadagnano la metà degli uomini. La maggior parte di questi soggetti hanno una media di 35 anni e sono, anche in questo caso, per lo più co.co.co e co.co.pro. (78,49%). Il guadagno medio oscilla tra i 7mila e i 9mila euro. E, per zone di residenza, i precari sono concentrati soprattutto al Centro-Sud. Con picchi di presenze in Calabria, Lazio e Molise, dove si supera abbondantemente la soglia del 70%, mentre la situazione migliora al Nord-Est. I settori di maggior impiego? Poste e telecomunicazioni (83,62%), servizi alle imprese (77,46%), ricerca (74,06%) e sanità (73,48). Un mondo fatto di lavoratori privi di diritti elementari; un mondo che perde, con il passare del tempo, la fiducia in sé e nella possibilità di migliorare. Forse anche per questo un mondo senza figli (82%). E senza speranza. Nemmeno quella di una politica diversa dall’osceno spettacolo dell’indifferenza.