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di Lidia Campagnano

E’ del 1999 la decisione dell’Onu di celebrare, ogni 25 novembre, la Giornata Internazionale contro le violenze alle donne. La data ricorda l’assassinio, dopo torture indicibili, di due sorelle dominicane, Minerva e Maria Teresa Mirabal, fermate dai militari del dittatore Trujillo mentre si recavano a visitare in carcere i loro cari. Probabilmente qualcuno ha scritto il numero di donne che hanno pagato lo stesso prezzo di Minerva e Maria Teresa alle tirannie del mondo, ma il problema è che quel numero finisce col confondersi con altri numeri di donne vittime di violenze diversissime per il soggetto che le compie: un militare o un marito, il vicino di casa di diversa religione o il padre di uguale religione, il dannato della Terra o il benestante europeo, il vecchio e il ragazzotto, il progressista e il fascista. E per giunta, la violenza è in aumento, le donne hanno tutte e sempre paura, per sé o per altre (per le figlie), hanno paura della strada ma le statistiche dicono che devono temere ancor di più della casa, perché è in famiglia che si consuma la stragrande maggioranza delle violenze.
Il che significa che quella della violenza è, per le donne nel mondo, per metà dell’umanità, una condizione. Anche se, raggiunto un certo livello di emancipazione, una donna può tentare di dimenticarlo.

E certamente questo marchio su di sé come altra metà dell’umanità, un uomo non lo vede, non lo affronta, non lotta per liberarsene. A imporre infatti il tema nelle agende politiche e anche in quelle culturali sono alcune donne, e un numero sparuto e quasi invisibile di uomini tra i quali – ed è indicativo – non figurano mai le autorità religiose e nemmeno i maitres à penser.
Non aiuta, forse, a vedere le cose come stanno il fatto di parlare genericamente di violenza. Sono infatti vittime di violenze anche gli uomini, o i bambini. Qual è la differenza?

La differenza è lo stupro. E’ l’idea che si possa (e con quanta facilità) passare dal desiderio di sessualità ad atti sessuali forzosi. L’idea che si possa fare del male al corpo intimo, al corpo inerme dell’altra facendo del proprio stesso corpo un’arma. Lo stupro è godere nel fare all’altra ciò che mai si vorrebbe che fosse fatto a sé, al proprio stesso corpo intimo e inerme. Ovvero, godere nel torturare.

Che poi dallo stupro si passi alle botte davanti ad ogni segno di pur vaga opposizione, o all’omicidio quando una donna si ritira da una relazione è quasi naturale: quel corpo intimo e inerme dentro il quale non si vede nessuna persona, nessun soggetto di volontà, quel corpo dove un uomo non vuole vedere se stesso, o una somiglianza con se stesso, è vissuto come proprietà privata: come cosa.

Forse se si partisse di qui gli uomini capirebbero un po’ di più, vedrebbero di più, nella violenza alle donne, la propria fatale alienazione, la radice di una inumanità capace di inficiare e distruggere ogni aspirazione a diventare più umani, migliori, in progresso. O, più semplicemente, vedrebbero il mondo così com’è: spaccato in due, popolato da una specie animale mai approdata dalla sessualità alla convivenza civile.
Ben venga il 25 novembre, se riesce a ricordare che la storia dell’umanità si agita attorno a un punto immobile, a un grumo antistorico di barbarie.