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di Maura Cossutta

Welby è morto come aveva deciso, voluto. Una scelta di un uomo che ci ha costretto a pensare, a discutere. Su di lui e, quindi, su di ognuno di noi. Perché avremmo potuto essere lui, perché lui è stato come noi. Una malattia tragica, la sua, che imprigiona il corpo e lascia libera la mente, anno dopo anno, giorno dopo giorno. Non ce la faceva più. Lasciatemi andare, lasciatemi morire. Tante volte, quando facevo il medico in ospedale, ho sentito queste parole. Dette sottovoce, con gli occhi, con le mani. Forse si intuisce quando si è alla fine e si cerca un conforto, un aiuto. Aiutami, non farmi soffrire. E il medico può, deve. Saper accompagnare alla morte è il compito più difficile, che dovrebbe essere insegnato e imparato da ognuno di noi, di chi è medico ma anche di chi non lo è. Morire senza dolore, senza soffrire, con accanto qualcuno che ti accompagni, che ti ama, che ti vuole bene: non è così per tanti, per troppi. Ha ragione chi oggi, di fronte alla morte di Welby, insiste su questo; sulle scelte che si devono fare, sulla mostruosa carenza di risposte per garantire assistenza dignitosa per i malati terminali, per accompagnarli a vivere fino alla fine con serenità e dignità. Gli hospices, l’assistenza domiciliare, le cure palliative, l’umanizzazione degli ospedali, gli ospedali senza dolore: siamo ancora indietro, troppo indietro. Certo, tutto questo è doveroso, ineludibile ed ancora terribilmente non scontato né garantito.
Ma per Welby, che c’entra? Welby è stato assistito, mai abbandonato, stava da anni nella sua casa, con accanto la moglie, i suoi amici, era supportato da una terapia contro il dolore. Ma non ce la faceva più. Aveva chiesto di essere lasciato andare, aveva scelto di interrompere un trattamento terapeutico che gli permetteva artificialmente di respirare e quindi di sopravvivere, aveva deciso con la sua piena capacità di intendere e di volere. La libertà di decidere. E’ questa in discussione?

Si rimane sconcertati e indignati dalla confusione e dalla ipocrisia. Si è parlato di possibilità di sospendere un trattamento quando si configura come accanimento terapeutico: per Welby non si trattava di questo. Non era un malato terminale, in cui tutte le funzioni vitali sono compromesse e rispetto al quale, quindi, l’accanimento terapeutico diventa soltanto esercizio di una medicalizzazione onnipotente quanto disumana. Welby avrebbe potuto ancora vivere, forse ancora a lungo, perché solo la funzione respiratoria era del tutto compromessa. Il medico quindi non poteva staccare il respiratore, si è detto, perché non era accanimento terapeutico. Ma Welby poteva decidere, in coerenza con l’art. 32 della Costituzione (e anche con la più recente Convenzione di Oviedo) di interrompere il suo trattamento terapeutico. Anche D’Agostino (ben noto per il suo interventismo nel Comitato Nazionale di Bioetica, sempre fedele ai documenti della Conferenza Episcopale) ha ammesso che, sì, questo diritto è un diritto costituzionale intangibile. Ma, continuava, il punto è quello che succede “dopo”, quando si fosse staccato il respiratore. Sarebbe stata eutanasia (o peggio, come alcuni hanno detto, omicidio). Se il medico fosse intervenuto con farmaci, sarebbe stata eutanasia. Ma di cosa si sta parlando?

E’ chiaro che la definizione di eutanasia prefigura un intervento attivo che interviene sui tempi naturali della morte. Nel caso di Welby, una volta staccato il respiratore, il tempo naturale della morte sarebbe sopraggiunto subito, perché non si può sopravvivere senza respirare. Il respiratore artificiale non è quindi accanimento terapeutico, ma neppure un semplice trattamento terapeutico. E’ un trattamento vitale, senza il quale non esiste sopravvivenza possibile. Non si trattava di interrompere quindi i tempi naturali della morte, ma solo di impedire che Welby morisse “naturalmente” soffocato. Per questo chiedeva di essere sedato. Allora, perché questa discussione sull’eutanasia? Se a Welby è stato riconosciuto il diritto a scegliere di interrompere il suo trattamento terapeutico, perché invocare l’eutanasia o, peggio, l’omicidio? E quale deve essere il dovere di un medico di fronte a questa volontà? Accompagnare il malato alla morte naturale, senza farlo soffrire, o lasciarlo asfissiare come un pesce rosso senza l’acqua nel vaso?

Serve una legge per garantire questa libertà, per applicare un articolo della costituzione? Non credo. Nel caso di Welby non credo servisse una legge, come invece sarebbe necessario in tema di testamento biologico o come sarebbe ipotizzabile nel caso si discutesse veramente di eutanasia, cioè la possibilità di accelerare in modo attivo i tempi naturali della morte. Serviva invece che la politica trovasse parole serie e chiare, radicate nel rigore dei principi e dei valori costituzionali. Abbiamo ascoltato invece l’impotenza di un pensiero e sopportato il rimpallo delle responsabilità dei poteri, tra quello legislativo e quello giudiziario. Con al centro l’ambivalenza del potere scientifico. Welby se n’è andato, agendo la sua libertà, per la sua dignità. E affidando a tutti noi questa sua domanda di libertà. Ricordarlo con rispetto vuol dire allora continuare a discutere, a pensare.

Welby oggi è davvero la figura emblematica e tragica del ventunesimo secolo. Mentre il sud del mondo combatte ancora contro la mortalità evitabile, mentre milioni di bambini di interi continenti muoiono per banali infezioni o dissenterie, mentre le morti per AIDS di milioni di contadini stanno precipitando il PIL dell’Africa a livelli di catastrofe, nel mondo sviluppato i progressi della medicina e della tecnologia dilatano il tempo della morte naturale. E la vita è alimentata da respiratori e tecniche di alimentazione artificiale, permettendo ai corpi di sopravvivere. Mentre nel sud del mondo le politiche demografiche dei governi impongono limiti alla naturale capacità riproduttiva, nei paesi sviluppati si possono persino superare i limiti naturali della stessa procreazione.
Per questo la domanda di Welby di poter morire contiene tutta la tragicità della modernità. E’ stata ed è una domanda di libertà che contiene tutte le domande di libertà, di ogni donna e uomo del nostro pianeta. La libertà di vivere e di morire, che separa tragicamente il mondo e interroga l’etica pubblica.

La bioetica è allora innanzitutto questo: lo scenario moderno delle mostruosità di uno sviluppo ineguale. Il diritto alla vita e il diritto alla morte si interrogano reciprocamente, senza che la politica decida di trovare risposte. La politica non sceglie di garantire il diritto alla vita di tutti, né di permettere il diritto alla morte di uno. La politica da una parte fa un passo indietro rispetto alle logiche di mercato delle multinazionali dei farmaci o dei diktat della Banca Mondiale e del Fondo Monetario; dall’altra rinuncia persino a parlare. Un complessivo fallimento epocale.

Discutiamo, allora, innanzitutto di questo: della vita e della morte, di cosa è la bioetica, di cosa significa. Di quali conflitti parla, cioè di quali soggetti. E di quale pensiero impegna, cioè se solo di filosofi, giuristi, antropologi, scienziati, o peggio - per sprofondare repentinamente nel provinciale contesto del nostro paese - se solo di laici e di cattolici. Il pensiero politico, il pensiero occidentale sembra disperdersi in primati spezzettati di pensieri specializzati, rinunciando alla multidisciplinarietà, esaurendo o perdendo la capacità complessiva di leggere le sfide del presente e del futuro. Questo pensiero sembra impotente ad affrontare la complessità e, anzi, sembra scegliere di semplificare quello che invece resta complesso. La “verità” diventa l’imperativo della ricerca intellettuale, che si affida da una parte all’apparente oggettività della scienza e dall’altra all’assolutezza dei principi religiosi. E’ una verità che in entrambi i casi scavalca i soggetti, ne fa a meno, li trasforma in “oggetti” di discussione e di decisione. Questo pensiero occidentale è oggi piegato, umiliato.

Democrazia, uguaglianza, laicità, sono stati e sono i fondamenti del pensiero costituzionale, che oggi dobbiamo riuscire a inverare, rispetto alle sfide del presente e del futuro. Un pensiero che deve essere forte, capace di sancire l’universalità dei diritti come condizione della libertà, ma anche di riconoscere le libertà delle persone come il fine ineludibile dell’attuazione dei diritti. Un pensiero forte che parli al di là dei confini dei nostri paesi, per garantire gli stessi diritti anche ai popoli del sud del mondo, assumendo l’universalismo dei diritti dentro l’orizzonte di una cittadinanza globale. Un pensiero forte che consideri la laicità non come terreno di minimalismo etico, ma anzi come strumento per far recuperare alla politica la sua ricerca di senso, di significato, per impedire che la legislazione diventi etica. Senza laicità, la democrazia diventa autoritaria e l’uguaglianza si trasforma in assimilazione.

Tutto questo non solo non c’è, ma anzi si assiste a un rigurgito di arcaicità. Quelli che si dichiarano per la modernizzazione, abbandonano con leggerezza ogni coerenza sul piano della difesa dei diritti e delle libertà; quelli che si richiamano alla dottrina sociale della Chiesa, rinunciano al tema dell’equità e della giustizia sociale in nome del primato della verità religiosa. Non ci sono più i Dossetti o i don Dilani, ma solo la Binetti, che diventa l’ago della bilancia, detta i condizionamenti ad una coalizione che si condanna all’afasia proprio sui principi e sui valori che dovrebbero ispirarla.

Teodem, teocon, sono gli unici interlocutori che trovano udienza, che appaiono essere gli unici detentori dei “valori”. Gli altri, se parlano di valori, sono solo ideologici. Allora, siamo davvero a un passaggio cruciale: prove di egemonia, per la ridefinizione di un pensiero dominante. Il pensiero occidentale viene distorto, piegato. Il secolo della “tirannia etica”, si è detto. Anche su questo Welby con la sua morte ci ha lasciati a pensare. Grazie, Welby.