Stampa
di Mazzetta

L’addio ai DS di un parlamentare poco conosciuto al grande pubblico ha provocato, negli ultimi giorni, un mezzo terremoto. L’ormai famoso Nicola Rossi ha mollato Fassino, D’Alema e Veltroni perché secondo lui il partito non è più riformista. La parola, di per sé, non significa molto. O meglio: è sempre stato chiarissimo che ciascuno di quelli che si riconoscono nel movimento che si identifica con il riformismo, ha una sua personale idea sulla questione. Tutti questi , tuttavia, fino a venti anni fa sarebbero stati considerati di destra. Rossi era un componente della squadra di D’Alema, epicentro creatore del mantra riformista, che ha significativamente influenzato, insieme ad altri, le decisioni dal dopo-PCI, cominciando da appena oltre Occhetto. Quest'ultimo incarnava ancora la vecchia scuola politica italiana e fu fatto passare per un mezzo estremista non appena pronunciava certe verità, spesso date fino al giorno prima per sacre, ma ormai destinate ad essere travolte del riformismo rampante. Fu questo pool di intelligenze che accettò il simpatico scambio tra la Bicamerale (oggetto non meno oscuro del riformismo ed esperienza fallimentare che si sapeva tale fin da prima) e la libera strapotenza televisiva di Berlusconi. A tal proposito è bene notare come queste posizioni, in anni di governo, non siano neanche state capaci di copiare e approvare una qualsiasi legge di livello europeo sul sistema delle comunicazioni e dell’informazione. Più probabile dell’incapacità è comunque l’assenza di volontà, visto che per i riformisti l’assetto dei media italiani non è mai stato una preoccupazione. Tratto tipico dei riformisti fu la convergenza al centro, ove incontrarono le margherite. Rutelli, gioioso sconfitto da Berlusconi, si avvalse del loro supporto per andare incotro alla sconfitta, subito dopo che il povero governo del loro leader D’Alema aveva annoiato gli italiani e, soprattutto, dopo che a spingere Prodi giù dal governo furono le loro stesse mani.

Ora che si arriva alla legge elettorale (che nessuno dubita debba essere modificata, e non solo perché ha favorito smaccatamente Berlusconi), la chiamata della fine del riformismo ha acceso le polveri. A suo modo Rossi, che comunque si è iscritto al gruppo dell’Ulivo, ha agitato le acque.

Questa agitazione deriva dal banale motivo per il quale, dovendo rifare la legge elettorale, nessun partito accetta un sistema che non gli dia garanzia di mantenere più o meno la stessa influenza. A questo si aggiunge la sorte del bipolarismo; nelle parole dei riformisti è sacro e qui di nuovo i loro destini si incrociano con quelli di Berlusconi che con il bipolarismo e il controllo delle televisioni ha la chiave della maggioranza del centrodestra; fino a quando Berlusconi blocca il centrodestra pretendendo di dominare il nuovo partito unico della destra - e l’integrità delle sue amate televisioni - tutto fila liscio. Ma non appena questa posizione di forza viene minacciata, cade il mondo. Il fatto che la crisi riformista metta in dubbio il partito unico della sinistra, provoca una situazione speculare nel centro-destra.

Berlusconi, però, non è più presentabile e gli eredi naturali si sono posti uno accanto a lui (Fini) e l’altro in educata e democristiana opposizione (Casini). Ed ecco la paralisi, il blocco, l’ingorgo di veti; subito il Foglio si prodiga in consigli ai riformisti e a tutti gli altri del campo avverso; appare Bondi che invoca D’Alema e Veltroni e li invita a perseguire la strada del Partito Democratico. Che è un’altra nuvola misteriosa e cangiante a seconda delle ore della giornata. Quelli che lo invocano dicono che sarà aperto, solidale e poi esprimono una serie di intendimenti incongruenti; anche loro hanno il problema di portare all’interno del Partito Democratico le proiezioni soggettive dei soci fondatori. Tanto che, per più di uno, sembrerebbe perfettamente normale fare un partito unico che all’interno abbia due, tre o quanti necessari partiti. Quindi ancora un metapartito . O, più semplicemente, un marchio comune. Un brand associativo o poco più.

In questo panorama, aggiunta la Margherita, il PD diventa un partito che ha il suo baricentro in quella che una volta era la politica della Democrazia Cristiana. I detriti a seguire la detonazione della DC erano tosti, vecchia scuola anche quella. Aggiornati, ma al tempo stesso attenti all’ossequio al cardinale e al territorio, hanno fatto scuola e offerto il supporto gemello che l’UDC e vaganti hanno nel centro destra. Altrettanto scontato l’ossequio quasi servile ai governi statunitensi e la vicinanza alla pubblica amministrazione e ai poteri economici. Miracolosamente, oggi queste immortali schegge democristiane tengono in ostaggio sia la destra che la sinistra, con enorme gioia del Vaticano ormai onnipresente nei due schieramenti.

La prova del nove di questa considerazione è data dalla questione della futura affiliazione del PD al gruppo Socialista Europeo. Per parte loro i socialisti europei hanno tributato un gradimento senza fraintendimenti all’ingresso del PD nel gruppo socialista, giungendo ad un invito per acclamazione davanti a Prodi e alla platea del loro congresso. Ai democristiani questo ovviamente non va bene. Anche questa grana sarebbe risolta dall’impiego del metapartito. Problema nel problema è che non è facile fare leggi elettorali che assicurino la rappresentanza proporzionale in un sistema maggioritario. Questo ha prodotto la corsa alle tessere, cioè a produrre falsi iscritti destinati a pesare pro-quota nel futuro PD.

Niente di troppo serio; a confermarlo sono le varie interviste ai riformisti in crisi, c’è chi tra loro invoca i sindacati e li implora di riformare (a danno dei lavoratori) le pensioni. C'è chi come Velardi (che si è messo in proprio e offre a chiunque possa pagarli inestimabili “service” politici) pontifica. E c’è chi, come lo stesso dimissionario, invoca un ricambio della classe dirigente; ma sul merito non se li ascolta nessuno. In tutto questo, Prodi lavora e il suo governo (molto, troppo vicino a Confindustria) declina il riformismo in: sviluppo, sviluppo, sviluppo. Ciascuno potrà notare come gli argomenti e le questioni sollevate siano decisamente prosaiche, così come la totale assenza di qualsiasi declinazione politica cara alla sinistra ad ogni latitudine.

Le fantomatiche riforme non hanno infatti altro scopo dichiarato che lo stesso riformare. Non hanno una meta, non seguono un disegno politico o sociale. O meglio; un disegno si intravede chiaramente, ma non può essere dichiarato in quanto renderebbe evidente a chiunque che si tratti di un disegno di destra teso a favorire quello che in altri tempi si sarebbe chiamato il padronato e la grande finanza.

Quindi il nascituro PD sarebbe zavorrato dai signori democristiani delle tessere, che farebbero convergere anche brandelli di socialisti e repubblicani. Forse qualcuno ricorderà la “Cosa”, la formazione innominata alla quale i nostri eroi, ai tempi dell’agonia del PCI, cercarono di dar vita senza successo; ebbene sono ancora lì, sempre gli stessi, sempre più a destra e sempre più compromessi con la grande finanza e la grande proprietà italiana, sempre più ossequianti e sempre più circondati da porporati.

Intanto, i partiti ai quali hanno dato vita fanno tutti più o meno acqua, occupati come sono nelle nomine di potere e obbligati a non esprimere alcuna linea politica riconoscibile, pena l’autodistruzione. Un tipico esempio in questo senso è quello dato da Bologna. Insediato Cofferati , i DS locali si sono allineati alle sua politica e non sono in grado di esprimersi sulla sua deriva law & order & sciocchezze; non solo, ma se domani Cofferati decidesse di fare un'azione provocatoria o smaccatamente di destra, potete star certi che da quella che una volta era la maggiore federazione comunista al di fuori dell’URSS, vi risponderebbero che valuteranno la situazione e vi sapranno dire; il giorno del poi e il mese del mai.

Non sono certo da rimpiangere certi eccessi di idealismo del passato, ma possiamo salutare con favore gli ultimi botti dei riformisti. E sperare che il loro riformismo ci metta poco a morire, magari trascinando con se il mostro teodemocratico e un altro paio di trovate del genere che negli ultimi anni hanno reso ostaggio la sinistra italiana di questa squadra di inadeguati (su tutti ovviamente il gruppo dirigente di DS e Margherita), sperando che con la loro caduta si torni a parlare di progetti capaci di volare oltre i soffitti troppo bassi delle segreterie. In Europa ci sono diversi modelli di governo ispirati ad esperienze di sinistra e sono quelli che hanno ottenuto i successi migliori in termini di qualità della vita, riduzione delle diseguaglianze, rispetto per l’ambiente, formazione della cittadinanza attiva e sostanziale pace sociale.

Se il grande partito della sinistra italiana (quello che non c’è) si mantenesse entro il perimetro politico delle socialdemocrazie europee, sarebbe già un passo da salutare con benevolenza. Ma se il Partito Democratico sarà anche cristiano e riformista, è chiaro che si porrà al di fuori della sinistra europea e che non potrà che essere rifiutato da tutti quegli elettori che ritengono che esistano valori di sinistra, politiche di sinistra e discorsi di sinistra. La prossima riunione di Caserta degli stati maggiori dell’Unione, ad esempio, potrebbe fare mente locale su questo particolare, decidere di non limitarsi a dire qualcosa di sinistra e provare a fare qualche passo concreto per dimostrarsi tale.

Purtroppo niente supporta l’ottimismo in tal senso. Basta vedere i nomi e le facce che occupano la politica italiana e rendersi conto che sono le stesse di venti ,se non trenta anni fa. Purtroppo neanche lo stesso Nicola Rossi è riuscito a fare la cosa più riformista di tutte; dimettersi dalle sue cariche pubbliche e lasciare un posto nel quale dice di essere inutile ed inascoltato da gente che non si dimette mai e che non vuole il riformismo.