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Con la fiducia dei due rami del Parlamento il governo si è formalmente insediato alla guida del Paese. Sebbene il programma esposto dal Presidente Conte contenga spunti interessanti, la sua proiezione apparentemente inemendabile verso le politiche rigoriste che impone Bruxelles non lascia grandi margini all’apertura di una nuova stagione politica.

Dunque nessuna illusione circa le virtù riformatrici di questo nuovo governo, ma non è questo il suo destino, non a questo serve, non per questo vive. Semplicemente nel nascere ripone al loro posto le cose: ristabilisce un ordine naturale nelle alleanze politiche, rimette nel recinto del medioevo la destra italiana e apre una stagione di contaminazione possibile tra un’idea di modernizzazione del sistema e il mantenimento di principi storici di natura politica e persino etica, come quello della disciplina repubblicana che impone la discriminante antifascista. Un governo di salute pubblica lo si può definire.

 

Nel concreto, l’aria si fa decisamente più respirabile, dato che scompare la follia dell’ipotetica flat-tax, che ci avrebbe portato dritti nell’abisso; si azzera l’orrido decreto Pillon, miscela di sansepolcrismo e business sulla pelle delle donne e, soprattutto, viene rimandata sine die la cosiddetta “autonomia differenziata” in salsa leghista, forse il più pericoloso attacco mai sferrato alle fondamenta democratiche del Paese, all’idea di eguaglianza di tutti i cittadini ed alla norma costituzionale che prevede lo Stato come garante dell’universalità dei diritti, ovvero della possibilità di accedervi da parte di tutti i cittadini senza discriminazione alcuna. Sparisce anche la famigerata legge invocata da Salvini per colpire il consumo delle droghe leggere e persino di quelle sostanze prive di componenti psicotrope. Ne saranno dispiaciuti spacciatori e cartelli.

Le politiche sull’immigrazione non subiranno forse mutamenti di profonda sostanza, ma quanto meno è auspicabile che cercheremo di non trasformare il Mediterraneo in un cimitero galleggiante. Sarà necessario rivedere completamente il Trattato di Dublino, ma sarà più semplice farlo con gli esponenti del governo presenti alle riunioni a ciò destinate piuttosto che con quelli che le ignoravano regolarmente per presenziare invece a comizi e comparsate. Ci si aspetta intanto un governo che sappia impugnare le leggi regionali xenofobe e rimettere la Carta al centro di ogni proposta legislativa nazionale e regionale.

In primo luogo, però, con la nascita del “Conte bis” finisce l’apoteosi di Salvini. La sua onnipresenza e la sua onnipotenza sono rimaste sepolte sotto il suo delirio onanistico, la richiesta di pieni poteri lo ha portato alla perdita di ogni potere. La sceneggiata a base di grida invasate e saluti romani messa in onda sotto Montecitorio è stata l’ennesima sconfitta: di fronte all’invasione di Roma annunciata 34 giorni orsono, solo qualche migliaio di fascistelli ha presenziato alla retromarcia su Roma.

D’altra parte, al di là del livore esibito, di politica vi è ben poco nella strategia-fascio leghista. Le urla manzoniane contro il cambiamento del quadro politico servono soprattutto ad allontanare le critiche da Salvini, che in piena dottrina Tafazzi ha scelto di mettere in moto la crisi politica senza tener conto delle sue possibili conseguenze. Di questo, spenti i riflettori sulla crisi, gli chiederanno conto i maggiorenti della Lega che non lo amano e i militanti che ne intravedono il fallimento. Ed hanno voglia a dire che alle elezioni trionferanno: hanno perso 8 punti percentuali in un mese e la rabbia sta ad indicare che sanno di aver perso un’occasione che forse non si ripresenterà.

Ma alle urla bisogna comunque opporre argomenti. Governo illegittimo? E perché? Non si capisce come mai possa nascere un governo di coalizione tra il primo e il terzo partito e non tra il primo e il secondo. Alle elezioni il PD ha ottenuto il 18,7 per cento e la Lega il 17,4: anche la matematica diventa strumento demo-pluto-giudaico-massonico? Divertente sentirli parlare di incostituzionalità dell’agire dei 5 stelle, data l’assoluta costituzionalità della procedura (ma loro, con la Carta, sono notoriamente in difficoltà). Stravagante anche la polemica sulle poltrone, quando ne hanno fatto incetta senza pudore; non è ben chiaro come mai entrando nei ministeri loro diventino uomini di governo e gli altri poltronisti.

Poi non si vede come possano accusare il PD di governare perdendo le elezioni, visto che loro non ne vincono una dai primi anni 2000 ed hanno però ritenuto di poter governare “con pieni poteri” pur arrivando terzi alle elezioni. Bizzarro sentirli parlare di impedimento al diritto di voto quando un anno fa scelsero l’accordo con il M5S invece tornare a votare; particolarmente ridicola la Meloni, che dimentica come, nel 2011, pur di non andare a votare (sarebbe stata seppellita politicamente dopo la caduta del governo Berlusconi) accettò di votare il governo Monti. Lo fece per evitare proprio le elezioni che avrebbero visto vincitore il PD guidato da Bersani. Il suo continuato sostegno al governo Monti le fece votare il pareggio di Bilancio in Costituzione e la riforma Fornero, combinato contro il quale si scaglia adesso per racimolare consensi. Insomma prima vota e poi protesta contro il suo stesso voto: un po’ bifronte, come quando parla di Costituzione, su cui ha giurato da ministro ma che odia da fascista. Un autentico esempio di dislessia politica.

C’è poi la cosiddetta intellighenzia redazionale dei giornalini di regime che brinda alla sconfitta di Salvini come presa di distanza dalla Russia. Qui siamo oltre il ragionevole e persino a dispetto dei fatti, visto che Salvini ha votato immediatamente il rinnovo delle sanzioni (vergognosamente ipocrite) verso Mosca. Perché? Perché Salvini non segue Putin bensì Trump. Come tutta la destra, soprattutto quella che finge di stimare Putin ma poi accetta che i trattati missilistici a medio raggio vengano stracciati dagli USA e che la Russia si trasformi in un bersaglio (e l’Europa di conseguenza). Identificare la destra con i russi è davvero una delle peggiori idiozie di questi tempi.

La riorganizzazione della destra non sarà semplice, Berlusconi e la maggior quota di Forza Italia non sono disponibili ad associarsi al caravanserraglio di fascisti, omofobi ed isterici che animano l’asse tra Lega e Fratelli d’Italia. Pensare di fare della destra italiana un’aggregazione da sommare al gruppo di Visegrad impedisce di trasformare il consenso dei rabbiosi in un progetto politico compatibile con l’Europa. La cosiddetta “borghesia produttiva” che dovrebbe rappresentarne l’ossatura sociale ha, per definizione, passioni governiste e compatibili con gli assetti sistemici consolidati.

 

Quanto al PD ed allo stesso M5S, la prova di governo ne misurerà non solo la capacità di operare una sterzata sulle politiche del primo governo Conte, ma anche la possibilità di avviare un ragionamento sulla riformabilità della politica italiana ed europea. Difendere l’universalità dei diritti, recuperare il valore dell’intervento pubblico nell’economia, rimettere sul tavolo la questione meridionale e disegnare riforme sul mercato del lavoro, sul credito e sul fisco, restituire sovranità nelle scelte di politica estera: queste sono le vere scommesse. Più che arrovellarsi sull’ennesima riforma elettorale (pure necessaria per abbattere il mostro del Rosatellum) dovranno insomma provare a stendere su un foglio bianco il modello di società e quindi di Paese che immaginano. La crisi della rappresentanza ha bisogno di risposte che riguardano le condizioni materiali di vita degli italiani: il riassetto idrogeologico dell’Italia, l’estensione del welfare e un fisco premiante per il lavoro e penalizzante per la speculazione finanziaria, la restituzione del potere di spesa ai lavoratori per determinare la ricostruzione di una domanda interna, la riconversione in chiave ecologica della pianta industriale e la riforma urgente della giustizia civile, sono le mosse per riportare il buonsenso in politica e farlo diventare senso comune. Senza queste ambizioni, l’arte di governo si trasforma in arte d’arrangiarsi.