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Il Movimento 5 Stelle è ormai a un passo da una crisi di nervi. Al centro del contendere c'è il ruolo del garante nel nuovo statuto in via di allestimento. Da una parte c’è Beppe Grillo, che vuole continuare a esercitare quella regia occulta (ma neanche troppo) che del Movimento è sempre stata un tratto distintivo. Dall’altra Giuseppe Conte, che rifiuta di salire in sella con le mani già legate.

Negli ultimi giorni, Grillo ha proposto delle aperture al rivale-alleato, concedendogli di gestire la comunicazione e di nominare i vicepresidenti. Troppo poco per l'ex premier, deciso a rivoluzionare i poteri del garante.

 

Secondo l'Avvocato, in democrazia non si può accettare che qualcuno ricopra un incarico perpetuo di natura esecutiva. Il ruolo del garante a vita è ammissibile soltanto se la figura viene svuotata di prerogative politiche: dovrebbe diventare una sorta di simbolo, il custode delle memorie e dei valori del Movimento.

Un destino a cui Grillo non intende sottomettersi. Il comico genovese pretende di continuare a svolgere un ruolo attivo di indirizzo politico: esige che ogni decisione operativa sia sottoposta al suo vaglio, com'è sempre stato e sempre deve continuare a essere, in virtù di non si sa bene quale capacità o illuminazione primigenia.

A queste condizioni, però, Conte non accetta di mettersi alla guida del Movimento. Per entrare nella partita, l'ex presidente del consiglio pretende una metamorfosi da struttura padronale a partito vero e proprio. Lo statuto a cui sta lavorando da mesi prevede infatti organi politici nuovi – due vicepresidenti e un consiglio nazionale – le cui decisioni, insieme a quelle del presidente, non possano essere continuamente messe in discussione dal garante.

Insomma, lo scontro fra i due maschi alfa del Movimento è frontale. Tutti e due giurano che sul punto fondamentale della contesa non cederanno e tutti e due si dicono arrabbiati. Sullo sfondo, rimane lo spettro di una scissione fra governisti dimaiano-contiani e massimalisti della prima ora ancora affascinati dal fu Di Battista (quelli a cui il Parlamento piace, ma sempre e solo per stare all’opposizione).

Il Pd, intanto, continua a fare quello che sa fare meglio: aspetta. Per rispetto e per evitare strumentalizzazioni, Enrico Letta non mette bocca negli affari altrui, ma ovviamente tifa per Conte. Nella mente del segretario, la strategia per il futuro del Pd non può prescindere dall’alleanza con la versione rigenerata e moderata del Movimento. L’unica speranza di battere il centrodestra alle prossime elezioni politiche passa, secondo Letta, per una “grande alleanza progressista” che metta insieme l’ex maggioranza giallorossa con i vari cespugli di centro.

Un progetto di che sa di vecchio, sa di sconfitta annunciata, sa di Ulivo. Ma al momento è anche l’unica alternativa: il piano B non esiste. Il Pd ha bisogno della vittoria di Conte più di Conte stesso.