Da quando guida la Lega, Matteo Salvini non è mai stato così debole. Lo scandalo Morisi e il disastro apparecchiato per le amministrative certificano la crisi del fu Capitano, ma sono solo l’ultimo atto di una parabola discendente iniziata più di due anni fa. Dopo l’harakiri del Papeete - quando uscì dal governo Conte1 convinto, a torto, di forzare le elezioni anticipate - Salvini ha continuato a scrivere un manuale di autolesionismo. Prima è riuscito a perdere quasi il 15% nei sondaggi stando all’opposizione - caso unico nella storia repubblicana - poi si è infilato nel governo Draghi per partecipare al banchetto del Recovery, ma così facendo ha perso il controllo del partito.

 

L’ingresso in questa maggioranza imponeva alla Lega una metamorfosi da movimento sovranista fasciotrash a forza europeista di centrodestra. Per tenere insieme il Carroccio, Salvini avrebbe dovuto essere artefice e garante di questa transizione. Forse non ha voluto, forse non è stato in grado, forse non ha capito che la svolta era obbligata e si è illuso di poter influenzare il governo senza rinnegare l’estremismo.

La spiegazione ormai non conta: il punto è che, come una giraffa dal collo corto, Salvini non si è adattato ai cambiamenti dell’ambiente e ora si ritrova con due Leghe. Una massimalista, che ancora lo segue e ricorda con nostalgia l’epoca dei porti chiusi. L’altra governista, che raccoglie la classe dirigente del Nord (a cominciare dai governatori) e fa capo a Giancarlo Giorgetti, sempre più compreso nella parte del segretario ombra.

La settimana scorsa, in un’intervista alla Stampa, proprio il ministro dello Sviluppo economico ha detto di avere due desideri: Draghi al Quirinale dall’inizio del 2022 e, subito dopo, le elezioni anticipate. Se non è un’autocandidatura per Palazzo Chigi (e probabilmente lo è), la sparata di Giorgetti getta comunque un altro macigno sul cammino di Salvini, che in così poco tempo non riuscirebbe mai a recuperare il controllo della coalizione per candidarsi alla presidenza del Consiglio.

Alla stessa posizione aspira Giorgia Meloni, protagonista negli ultimi anni di una parabola speculare a quella del segretario leghista. La numero uno dell’opposizione ha traghettato Fratelli d’Italia dal 5% delle politiche 2018 e dal 6,4% delle europee 2019 fino al 20% di oggi (almeno a leggere i sondaggi, che però ormai da parecchio si rivelano inattendibili). Non che l’ex pupilla finiana abbia dato prova di chissà quale genio politico: la sua ascesa si spiega in larga parte con l’autoannientamento di Salvini e del Movimento 5 Stelle, oltre che con il vantaggio di guidare l’unico partito all’opposizione.

Ma proprio ora che ha il vento in poppa, Meloni rischia grosso. E non tanto per lo scoop di Fanpage che ha portato alla luce l’anima neonazista di Fdi: da solo, questo scandalo non basterà a spostare gli equilibri nel centrodestra, anche perché nel frattempo la Lega è alle prese con il caso Morisi, che agli occhi di molti elettori rischia di essere più compromettente dell’antisemitismo.

Il colpo più pesante Meloni potrebbe riceverlo dalle elezioni a Roma, dove ha chiesto e ottenuto di scegliere il candidato della coalizione, salvo poi non trovare nulla di meglio di Michetti, assai vicino al vuoto pneumatico. Fino a pochi mesi fa, la vittoria del centrodestra nella Capitale era data per certa: troppo disastrosa Raggi, troppo elitario Calenda, troppo Pd il Pd. Sarebbe bastato un candidato minimamente credibile per vincere senza patemi, invece la destra ha perso un’eternità a litigare, per poi convergere su un signor nessuno. Il risultato è che oggi la partita romana è più che mai aperta. E Meloni, ancora impegnata a costruire la sua futura leadership, rischia già di essere bollata come perdente.

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