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La sceneggiatura che vedeva l’Italia scivolare verso un presidenzialismo de facto inizia a vacillare. Fino a una settimana fa, l’esito più probabile della partita per il Quirinale era uno solo: Mario Draghi presidente della Repubblica e uno dei suoi uomini di fiducia, Daniele Franco, alla guida del governo. Una forzatura istituzionale macroscopica - perché il Capo dello Stato avrebbe un chiaro ascendente sull’Esecutivo - ma anche l’unico scenario ipotizzabile per tenere in piedi questa maggioranza. O almeno, tale era fino a una settimana fa.

 

Ora il quadro è leggermente cambiato. Draghi rimane il primo candidato al Quirinale per diverse ragioni: primo, è probabile che il trasloco al Colle fosse un benefit implicito nel biglietto d’ingresso per Palazzo Chigi; secondo, è improbabile che Draghi e Bruxelles, per blindare quel poco che resta della legislatura, rinuncino all’opportunità di controllare il Paese per sette anni dallo scranno più alto. Tanto più che la spinta propulsiva di questo governo sembra esaurita: la maggioranza è litigiosa, gli incidenti solo all’ordine del giorno sia in Parlamento che in Consiglio dei ministri e la montagna di riforme promesse ha partorito solo qualche topolino.

Il problema riguarda Franco. Per non contraddire gli ordini di Bruxelles e le aspettative dei mercati - ma anche per evitare una campagna elettorale durante la quarta ondata e la fase più delicata dell’attuazione del Pnrr - l’ascesa draghiana al Quirinale richiede un accordo fra i partiti per una transizione ordinata alla guida del governo. E il nome del ministro dell’Economia non sembra più adatto a catalizzare intorno a sé tutte forze politiche.

La frattura si è aperta in Consiglio dei ministri la settimana scorsa, quando il centrodestra (compresa Italia Viva) ha rigettato la proposta di un contributo di solidarietà sui redditi oltre i 75mila euro per sterilizzare in parte l’aumento delle bollette di luce e gas. Un’idea di buon senso, che non prevedeva affatto l’introduzione di una patrimoniale - come si è detto, in malafede - ma solo l’esclusione temporanea di chi ha di più dai benefici del taglio dell’Irpef. Era quindi un mancato beneficio, non un aggravio fiscale. Ma siccome colpiva i ricchi, la destra è insorta con riflesso pavloviano, individuando in Franco l’autore della proposta (che pure all’inizio era stata intestata a Draghi).  

Secondo indiscrezioni riportate dalla Repubblica, mentre il numero uno del Tesoro perde terreno, salgono le quotazioni di un altro ministro, Marta Cartabia. Sarebbe la prima donna premier nella storia italiana e, sulla carta, avrebbe un curriculum più che adeguato: presidente della Corte costituzionale per nove mesi fra il 2019 e il 2020 e Guardasigilli nell’attuale governo su indicazione di Sergio Mattarella.

L’ipotesi è suggestiva, ma gli ostacoli non mancano. Cartabia ha avuto qualche attrito proprio con Draghi per la gestione della riforma della giustizia, ma il rapporto fra i due si può comunque considerare solido. L’incognita principale riguarda Matteo Salvini, il leader meno entusiasta all’idea di rimanere nella maggioranza, soprattutto in caso di staffetta a Palazzo Chigi. È proprio qui che la partita si complica. Senza l’appoggio della Lega, Draghi potrebbe andare lo stesso a Palazzo Chigi? E malgrado le pose ostentate da Tajani, che deve appoggiare le velleità quirinalizie di Berlusconi, Forza Italia rimarrebbe in un’eventuale “maggioranza Ursula” con Pd e M5S? Infine, Cartabia avrebbe la forza di tenere insieme un governo non più d’unità nazionale, resistendo al bombardamento congiunto di Lega e Fratelli d’Italia? Sembra un’edizione paesana del Trono di spade. E, come nella serie, l’inverno sta arrivando.