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di Fabrizio Casari

Vedremo stasera quali saranno le manovre parlamentari incrociate tra maggioranza e opposizione e quale esito avranno avuto, tanto sull’approvazione del Decreto di rifinanziamento delle missioni militari all’estero, come sulle sorti del governo Prodi. Non si può però non cogliere, nel merito della polemica politica, la vergognosa strumentalizzazione della destra, che mentre invoca maggiore sicurezza per i nostri soldati, ne chiede l’entrata in combattimento e cerca, contemporaneamente, di far cadere il governo. Il combinato disposto delle due cose (instabilità politica e trasformazione della missione da difensiva a offensiva) rappresenta di per sé il pericolo più grave per la sicurezza delle missioni e degli attori coinvolti. Ad evidenziare maggiormente il grado di strumentalità della richiesta della destra, si deve ricordare non solo che il “caveat” della missione Isaf è stato da loro voluto e votato dal 2003 ad oggi, ma che anche solo fino a dieci giorni fa, la stessa destra non riteneva di dover procedere ad una modifica della missione stessa. Cosa è successo, dunque, negli ultimi dieci giorni? E’ successo che l’offensiva politica dell’Amministrazione Bush contro il Governo Prodi ha visto una escalation verso l’alto. Il ritorno a casa di Daniele Mastrogiacomo, ottenuto grazie all’impegno del governo e di Emergency, ha rappresentato in forma e sostanza una ulteriore distanza comportamentale tra Roma e Washington. La destra italiana, tenuta doverosamente al corrente di ogni fase della trattativa, mentre durante la stessa affermava condivisione per la linea scelta, alla sua conclusione, infastidita per il successo politico del governo e scattando sull’attenti di fronte alle parole dei funzionari di terza fila dell’Amministrazione, ha ritenuto di dover cambiare radicalmente disco. Così ha iniziato a parlare di “trattativa inaccettabile” e di risultato “grave”, dimenticando però che nel caso di Giuliana Sgrena, aveva condotto la stessa identica trattativa, seppure, purtroppo, conclusasi tragicamente con la morte di Calipari.

Oggi il copione prosegue. In Afghanistan ci troviamo in seguito ad una deliberazione dell’Onu nel contesto della missione Isaf. Per le nostre truppe il compito previsto è quello di presidiare una zona e, in generale, di permettere la stabilità del governo afgano, l’addestramento del suo esercito e della sua polizia, di proteggere le missioni di cooperazione civile. Insomma di contribuire alla rinascita del paese. Non è questo il momento per dire se la nostra presenza è giusta o no, se é utile o no, ma certo è che lo scopo della missione è questo. Si tratta, in sostanza, di uno scopo difensivo. E, a questo scopo, i duemila soldati e l’equipaggiamento di cui dispongono, stando agli stessi esperti militari, sono più che sufficienti. Di fronte non ci sono eserciti convenzionali di decine di migliaia di uomini, di falangi armate di aerei e tanks; ci sono invece infiltrazioni di bande talebane, armamento convenzionale leggero e alcuni rpg su mezzi mobili. Almeno per ora è questo lo scenario.

L’Amministrazione Bush, però, ritiene che debba aprirsi una offensiva militare nel sud del Paese e che a questa debbano partecipare tutti i paesi che hanno contingenti militari nella regione. Lo scopo della Casa Bianca è chiaro: a parole ritengono ci sia un nesso tra le attività militari dei Talebani e dei guerriglieri iracheni, opinione che ha fatto da sfondo all’invasione dell’Irak, distogliendo dall’Afghanistan uomini, risorse e mezzi e aprendo così due fronti mentre non riusciva a gestirne nemmeno uno. Ma appare evidente come l’offensiva di Primavera sia un modo per distogliere l’attenzione dal disastro militare e politico iracheno e tentare di risollevarsi dai sondaggi drammatici che condannano duramente i Repubblicani ad un anno dalle elezioni.
Per ora, solo i britannici hanno aderito alla richiesta Usa, visto che i contingenti olandesi, canadesi e romeni, pur concordi, pesano come piume sia dal punto di vista logistico che militare. I governi europei che contano, invece, hanno già dichiarato la loro indisponibilità a seguire gli Stranamore del Pentagono.

Cosa vuole quindi la destra? Che noi, diversamente dall’Europa, si aderisca ai desiderata dell’Impero trasformando la nostra missione da difensiva a offensiva? Che invece di difendere popolazione ed installazioni, istituzioni e infrastrutture, si passi all’offensiva militare, andando a stanare i Talebani nelle zone a sud dove sono concentrati? Sarebbe questo il modo per adempiere alla missione Isaf, che (meglio farfglielo spaere) niente ha a che vedere con “Enduring Freedom”? E sarebbe questo il modo per garantire la sicurezza dei nostri soldati?

Tanto ardore guerrafondaio trova la sua spiegazione nel tentativo di mettere in crisi il governo ed obbedire alla Casa Bianca, due facce della stessa medaglia. Prima si spera che una modifica radicale delle regola d’ingaggio faccia saltare il patto raggiunto tra le diverse componenti nell’ambito del centro sinistra. Poi, visto che non succede, la speranza non detta è che un eventuale prossimo disastro militare, con conseguenti perdite umane gravi, ricada comunque sull’Esecutivo guidato da Prodi. Se così non é, perché non l’hanno votato loro un decreto che ci portava direttamente in guerra durante i loro anni di governo? Avrebbero avuto la maggioranza schiacciante alla Camera e al Senato; perché non l’hanno voluto e votato?

Ci si dice che la situazione sul terreno è cambiata, che i Talebani apriranno una offensiva alla quale dovremo rispondere. Vedremo. Per ora però, l’annuncio di offensive è solo degli Stati Uniti. Da parte di tutti gli altri, invece, la domanda che dovrebbe porsi è un’altra: se questa guerra non può essere vinta (e dopo 6 anni è chiaro che non lo è e non lo sarà) cosa stiamo a fare in Afghanistan? E per quanto tempo ancora? Sono domande che una classe dirigente e i vertici militari di un paese dovrebbero porsi tutti i giorni. Senza definire scopo e durata della missione, si compie il primo passo proprio verso l’insicurezza dei nostri militari. Una Conferenza internazionale di pace appare invece, ogni giorno di più, l’unica offensiva di cui c’è bisogno. Con equipaggiamento diplomatico, politico e di sovranità nazionale, davvero adeguato allo scopo