Stampa

Qualcosa sta cambiando nel modo in cui i partiti italiani si approcciano alla guerra in Ucraina. L’entusiasmo bellicista della prima fase sembra affievolirsi, lasciando spazio a un pragmatismo fatto di maggiore cautela. Le ragioni sembrano due: l’evoluzione del conflitto, che sta entrando in una nuova fase, e l’approssimarsi degli appuntamenti elettorali, che obbligano la politica a tenere conto dell’opinione pubblica.

Sul primo fronte, dopo oltre due mesi di scontri, è chiaro che Kiev non sta più solamente cercando di respingere le truppe russe, ma porta avanti un conflitto tradizionale, fatto anche di contrattacchi. Le spedizioni di armi in Ucraina, quindi, non possono più essere presentate come un gesto di solidarietà nei confronti di un Paese che deve difendersi. Con il passare del tempo, i nostri interventi esterni (e ipocriti) prendono sempre più la forma di una dichiarazione di guerra alla Russia.

 

Sarebbe questa un’azione scellerata sul piano strategico - perché il rischio di un’escalation incontrollata non è mai eliminabile - ma anche illegittima sul piano costituzionale. Lo sanno anche i muri: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa”, recita l’articolo 11. Significa che è lecito imbracciare le armi solo quando si viene attaccati, cosa che finora, per fortuna, non è successa.

Si può obiettare che il nostro Paese fa parte della Nato e non può ignorare gli obblighi internazionali. Anche sotto questo profilo, tuttavia, una guerra contro la Russia non trova alcuna giustificazione, perché Kiev non fa parte dell’Alleanza e quindi non può invocare il tanto citato articolo 5 del Trattato Nord Atlantico (quello che, nel caso in cui un Paese membro venga attaccato, obbliga tutti gli alleati a intervenire in sua difesa).

I guerrafondai più incalliti obietteranno che la Nato può sempre decidere di aiutare un Paese terzo per tutelarne la sovranità e difendere la popolazione civile. Le stesse persone, però, dovrebbero spiegare perché non hanno mai invocato un intervento del genere contro Israele per soccorrere i palestinesi o contro l’Arabia Saudita per salvare gli yemeniti.

Dal punto di vista dei partiti, in ogni caso, ciò che più conta è l’opinione pubblica, che in Italia è prevalentemente contraria alla guerra. A dispetto della narrazione bellicista portata avanti dai mezzi d’informazione, infatti, tutti i sondaggi condotti dagli istituti più accreditati arrivano alla stessa conclusione: nel nostro Paese, più della metà delle persone è contraria all’invio di armi in Ucraina.

In questo scenario, a poco più di un mese dalla prossima tornata di elezioni amministrative, i leader politici non possono che guardare alla spregiudicatezza di Mario Draghi con sempre maggiore diffidenza, per non dire irritazione. Costituzione alla mano, il presidente del Consiglio non fa nulla di proibito: ha la fiducia del Parlamento e guida il governo con una dose di autoritarismo alta ma consentita. Sul piano politico, però, c’è un problema gigantesco da affrontare.

È mai possibile che un ex banchiere (centrale e non), eletto a Palazzo Chigi un anno fa da una maggioranza che oggi non rispecchia neanche lontanamente l’orientamento del Paese, decida in autonomia di schierare l’Italia dalla parte del sostegno incondizionato a questa guerra? Può davvero arrogarsi il diritto di genuflettersi da solo davanti a Joe Biden e ignorare in maniera così plateale l’opinione dei cittadini?

È chiaro che non sia questo il momento per indire elezioni anticipate, ma è altrettanto evidente che Draghi non può cavarsela con la solita informativa in Parlamento. In una democrazia vera, come minimo si chiederebbe al popolo di esprimersi via referendum, visto che l’Italia non è obbligata a entrare in guerra da alcun impegno o trattato internazionale.

Di certo nessun partito si spingerà a chiedere tanto, ma alla fine l’interesse elettorale delle singole forze politiche potrebbe indurre il presidente del Consiglio a raffreddare il proprio fervore atlantista. Anche perché - dalle parti del Nazareno, in segreteria - c’è già chi conta i giorni per fargli le scarpe.