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di Giovanna Pavani

Era al lavoro solo da tre giorni, Antonio Veneziano, 25 anni, l'operaio rimasto schiacciato dal crollo di un intero tratto dell'autostrada dei "miracoli", la Catania-Siracusa, una delle grandi opere volute da Lunardi e i cui lavori sono stati assegnati in sub appalto dall'Anas ad una ditta di Treviso, la "Spic". Nelle tabelle dell'Inail, Veneziano è il morto numero 1256. Dall'inizio del 2005, mica da dieci anni a questa parte. Ma la morte di questo ragazzo, che forse in tempi diversi anche se recenti, sarebbe stata liquidata con il classico, qualunquista e assolutorio, "ci si è messo di mezzo il destino", stavolta ha suscitato per prima l'indignazione dell'intero "triangolo istituzionale", in testa Napolitano, poi Marini e di seguito Bertinotti. Ieri si è aggiunto anche il Papa. Il che, più di altre voci, indica la misura di un'emergenza, quella della sicurezza sul lavoro, che in Italia ha assunto le dimensioni da paese terzomondista non più accettabili. Morire sul lavoro non è più, come un tempo, solo un'ipotesi estrema, è quasi una quotidianità, specie nel settore dell'edilizia: i dati Inail parlano di 253 morti nei cantieri solo nel 2005. Se si tolgono le domeniche e le feste comandate, sono uno al giorno. Morire lavorando perché l'azienda, qualunque essa sia, non rispetta regole minime di sicurezza perché la sicurezza costa e il fatturato ne risente, è roba da inizi dell'età industriale. Sembra che l'Italia sia ancora ferma lì e che la possibilità di progredire rimanga nascosta nelle tasche delle imprese. A scapito dei lavoratori.

La morte sul lavoro è dunque il punto terminale di un circolo vizioso che in Italia ha inizio fin dal momento in cui il lavoratore fa il suo ingresso in azienda, nel cantiere, in un call center. Qualunque sia il lavoro, materiale o "immateriale", manuale o di concetto, scatta immediata una catena di indifferenza nei confronti della salute di chi "presta la propria opera", che dà il senso immediato del rapporto di forza esistente tra il datore di lavoro e il lavoratore, un sistema tutto a vantaggio delle imprese. E questa situazione è diventata ancor più esplosiva con l'aumento della precarietà contrattuale, che è arrivata a squilibrare definitivamente questo rapporto di forza, già sproporzionato, grazie all'introduzione di una parola chiave: "flessibilità".

Le aziende l'hanno appiccicata un po' ovunque, come una decalcomania, accanto ad ogni fattispecie contrattuale esistente: "flessibilità dell'orario", "flessibilità dell'ambiente di lavoro", "flessibilità del ritmo di lavoro", "flessibilità del salario". Una "flessibilità", che fa rima con "precarietà", che le aziende hanno inteso estendere, ovviamente, anche alla sicurezza. Con buona pace del lavoratore, ormai sotto perenne minaccia di non vedersi rinnovato il proprio contratto "flessibile" in caso di rivendicazioni sindacali che facciano leva proprio sulla mancanza di sicurezza sul posto di lavoro. Le aziende temono come la peste chi tenta di far valere i propri diritti ( e, per esteso, quelli di tutti i lavoratori, quando si parla di sicurezza). Perché le regole per rendere protetto un cantiere, ci sono eccome, ma sono anche costose da rispettare. Dunque non le rispettano. Oppure utilizzano l'arma del ricatto più sporco: se investo in sicurezza non posso investire in forza lavoro, prendere o lasciare. Un lavoratore "tipo" per le aziende italiane del 2006, è uno che "risolve" i problemi dell'impresa e che non fa pesare in alcun modo di non essere in grado di risolvere i propri. E che, soprattutto, vive la propria "condizione precaria"non come un qualcosa che crea stress psicologici capaci anche di uccidere, né più e né meno di una gru che ti casca addosso, ma come una situazione di "grande libertà personale" che consente "esperienze diverse" senza l'aggravio di obblighi contrattuali che "limitano la possibilità di scelte mirate alla realizzazione personale".

Un ammasso di menzogne che mettono in evidenza la volontà delle aziende di rendere minima la loro responsabilità di impresa rispetto alla salvaguardia della salute, anche psicologica, del lavoratore. E che ha buon gioco in Italia, dove i controlli non esistono o quasi e, anche quando colpiscono nel segno, finisce poi quasi sempre nel pagamento di una multa talmente ridicola da autorizzare la violazione delle regole in modo strutturale: mai un cantiere è stato chiuso perché le regole sulla sicurezza non erano state seguite. Al massimo si sospendono i lavori per qualche mese, per dare modo all'impresa di mettersi in regola. Poi questa non lo fa, riapre dopo aver dato una mano di vernice alla facciata, e tutto è come prima.

Ma costa più la sicurezza sul lavoro o la cura di patologie, o incidenti, strettamente collegati alla sua inesistenza? Sempre secondo l'Inail, il costo sociale degli infortuni ammonta a 28 miliardi di euro, pari a 3 punti di Pil. Se si aggiungono le malattie professionali, i punti di Pil diventano 4. Su 100 infortuni denunciati in piccole imprese, 5 hanno provocato menomazioni permanenti. Una vittima su 5 è immigrata e il motivo più frequente di morte è la caduta dall'alto, ma un quarto delle vittime è stato travolto da gru, carrelli, ruspe o elevatori; il 10% delle vittime è morto per il crollo di una struttura, il 9% è rimasto folgorato. Tutto questo ha un costo sociale enorme, non solo sul fronte del risarcimento, quanto su quello umano: a chi perde un arto in giovane età o viene colpito da una malattia invalidante è riconosciuta una pensione. Denaro del contribuente per consentire una vita dignitosa a chi è stato vittima di un incidente il più delle volte per colpa di un'azienda che non ha voluto seguire le minime norme di sicurezza per non sprecare né tempo, né denaro. E le aziende ne sono talmente consapevoli da essere andate spesso oltre l'arroganza con la beffa: uno dei nuovi requisiti richiesti al fine di un'assunzione è quello di essere "particolarmente resistenti allo stress da lavoro di gruppo o alla fatica fisica protratta nel tempo": una razza di lavoratori a parte, per non intralciare la produttività. E farli continuare a morire a prezzi stracciati.