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di Sara Nicoli

Diciamoci la verità: la legge Biagi è servita a legalizzare la precarizzazione del lavoro e a far gravare il rischio d’impresa sui lavoratori anziché sulle aziende. Con le nuove figure di autonomi inventate dalla medesima legge, si è voluto palesemente legalizzare lo sfruttamento del lavoro, facendo risparmiare le imprese sui costi di previdenza, di tutela e di contribuzione. Ma, soprattutto, si è consentito alle imprese di applicare gli inquadramenti di lavoro a progetto (ex co.co.co) anche a tipologie che nulla hanno a che vedere con mansioni autonome né, tanto meno, finalizzate ad uno specifico programma aziendale. E non c’è niente di meno autonomo, meno progettuale, ma anzi straordinariamente subordinato di un lavoro nel call center. Così gli ispettori del lavoro sono arrivati alla Atesia, società leader nel settore, e dopo una lunga indagine hanno stabilito quello che era già chiaro a tutti: chi lavora nei call center è un lavoratore subordinato a tutti gli effetti. Il verdetto non lascia scampo alla società: deve assumere a tempo indeterminato tutti i suoi 3500 dipendenti e deve pagare i contributi ad altri diecimila con carattere retroattivo dal 2001. Il lavoro ha vinto, si direbbe. Eppure la guerra dei call center sembra essere solo alla prima battaglia. Quella che era stata salutata come un inizio di vittoria per le migliaia di lavoratori occupati nel più grande centralino d’Italia, sta ora diventando una vicenda molto più che simbolica, scatenando una querelle tra chi ritiene preferibile una soluzione di compromesso, alla quale giungere con tavoli di confronto, trattative e con un forte ruolo del sindacato e chi, invece, ha piena fiducia nelle decisioni dell’Ispettorato e non vuole cedere al ricatto imposto dai vertici dell’azienda. Già, perché non poteva mancare, il ricatto. La risposta arrivata per voce di Alberto Tripi, presidente del gruppo Almaviva-Cos, cui fa capo Atesia, com’era prevedibile, è stata netta: l’ipotesi assunzione apre la strada al licenziamento e alla delocalizzazione, soprattutto se il verdetto dell’ispezione dovesse ricadere solo sul call center di Cinecittà, provocando una distorsione del mercato che vedrebbe comunque continuare tutti gli altri outsourcer - le società che gestiscono i call center per le grandi aziende e che effettuano ricerche di mercato - sulla via della precarietà.

Il primo effetto dell’ispezione, dunque, lungi dall’essere l’assunzione, su cui ora dovrà pronunciarsi il Tribunale del Lavoro, è la sospensione degli accordi sindacali che l’azienda aveva stipulato tempo fa e che prevedevano, almeno a quanto dichiarato dallo stesso Tripi, l'assunzione a tempo indeterminato di 3 mila collaboratori entro la fine del 2006. Un ricatto occupazionale a tutti gli effetti, la norma nel nuovo mondo del lavoro inaugurato dalla legge Biagi e dal centrodestra berlusconiano il cui slogan, sintetizzato mirabilmente dal Nidil-Cgil, è sempre stato “più abusi fai, più commesse hai”. Per questo il sindacato ora chiede l’apertura urgente di un tavolo trilaterale, a cui partecipino forze sociali, aziende e governo. La proposta è essenzialmente una: ridurre il cuneo fiscale, abbassare il costo del lavoro e dare così alle aziende un incentivo ad assumere. Perchè il problema, si sa, è tutto lì: il costo aziendale per l'impiego orario di un addetto in outbound (quelli che fanno le telefonate per ricerche di mercato) è di circa 10,50 euro per il personale "co.co.pro", a fronte di una somma oraria di 15-17 euro per un operatore dipendente. Restano comunque da ricordare gli utili da capogiro che Atesia pubblicizza, i 300 mila contatti quotidiani che riceve, nonchè il suo probabile prossimo ingresso a Piazza Affari.

Dunque è un vero e proprio intervento sistemico quello che chiedono i sindacati al governo: la materia è troppo vasta e a rischio trappole per potersi permettere di procedere a piccoli passi, serve subito una riorganizzazione complessiva dell’intero settore. Una strategia che permetta alle aziende di restare sul mercato senza cancellare quelle garanzie a cui ogni lavoratore ha diritto, dalla tutela della maternità all’assicurazione sugli infortuni, dalla possibilità di avere accesso al credito al poter sperare ad una pensione per il futuro. Una battaglia in cui la sinistra, di lotta e di governo, dovrebbe procedere speditamente, senza alcun tentennamento, rispolverando le radici più vere e forti della propria storia. E invece no. Ancora una volta ci dobbiamo stupire. Cesare Damiano, ministro diessino del Lavoro ed ex sindacalista, non sembra affatto intenzionato ad intervenire in maniera radicale sul mercato del lavoro così come invece era stato promesso in campagna elettorale. Lo ha detto con disarmante chiarezza: “Il caso Atesina non influirà sull’atteggiamento nei confronti della legge Biagi”. Traduzione per i non addetti ai lavori: questo governo non ha i numeri per cambiare la legge Biagi e, soprattutto, non vuole aprire un fronte di scontro con il centrodestra. Nel programma dell’Unione si parlava sono di “modifiche”, non certo di cancellazione. Dunque, niente strappi. Si faranno correzioni minime, solo su questioni che si sono rivelate poco funzionali (l’esempio è quello dei contratti atipici come lo staff leasing, peraltro poco utilizzato), ma nessun colpo di spugna.

Ci saremmo aspettati altro. Soprattutto in virtù di errori di valutazione già compiuti in passato e che avrebbero dovuto insegnare al sindacato e alla politica che quando si parla di lavoro, i padroni sono sempre padroni e gli operai sempre dipendenti e in posizione di debolezza. Già negli anni Novanta, la progressiva destrutturazione delle norme che regolavano il lavoro dipendente tradizionale è stata accompagnata, anche da larga parte della sinistra, dalla pretesa che la flessibilità andasse a vantaggio dei lavoratori, consentendo orari meno rigidi e vincolanti di quelli del lavoro dipendente tradizionale. Non è ancora chiaro - evidentemente - che la flessibilità che si è diffusa negli ultimi quindici anni è stata invece subita dai lavoratori e si è tradotta ovunque in precarietà piuttosto che in opportunità. Questo tipo di flessibilità, quella dei call center come quella di gran parte dei lavoratori cosiddetti atipici, è imposta unilateralmente dai datori di lavoro per gestire la variabilità della domanda sul mercato, sostituire il lavoro dipendente, negare diritti e abbassare i costi del lavoro.

Vista l'estrema condizione di ricatto dei lavoratori precari all'interno di un call center, quale che esso sia, è difficile immaginare che l'organizzazione degli orari - ad esempio - possa essere gestita in modo autonomo dai lavoratori, anche laddove non si tratti di lavoro inbound - cioè dove l'operatore riceve la telefonata e dove dunque è prevedibile che vengano stabiliti degli orari di lavoro precisi. Nel lavoro outbound - dove è l'operatore a contattare il cliente - è la natura stessa del lavoro e i risultati che devono essere raggiunti a dettare i ritmi e i tempi di lavoro. Gli operatori di telemarketing o gli intervistatori telefonici finiscono per preferire - per necessità più che per scelta - alcuni orari piuttosto che altri. O comunque finiscono per prolungare il proprio orario di lavoro per riuscire a raggiungere i risultati previsti. Tanto più che spesso, in questo caso, le retribuzioni sono stabilite non su compenso orario fisso ma su sistemi integrati di cottimo. Distinguere dunque tra chi fa la telefonata e chi la riceve, attribuendo a uno diritti e tutele e all'altro niente, non fa che riproporre la distinzione del tutto arbitraria tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, negando l'impegno che la coalizione di centro-sinistra si è presa in campagna elettorale: superare la legge 30 e restituire un principio di dignità a tutto il lavoro.

La circolare emanata dal ministro Damiano dimostra invece che la discontinuità annunciata in campagna elettorale nell'affrontare le problematiche relative al mondo del lavoro, è lungi da venire. Infatti non solo non si pensa di cambiare rotta, ma addirittura in questi giorni non si contano gli apprezzamenti e i complimenti fra la vecchia e la presente gestione del dicastero del Lavoro. Maroni non fa altro che rivendicare la paternità della circolare e Damiano chiede collaborazione all'ex ministro: commistioni inaccettabili, quando invece l'Unione e il governo avrebbero il dovere di dire chiaramente cosa è o non è accettabile in termini di dignità del lavoro delle persone. Su un fronte non ci dovrebbero essere titubanze: l’imperativo di questi tempi è solo quello di recuperare il valore sociale del lavoro, concezione senza la quale ancora una volta non si paleserà agli occhi dei lavoratori la differenza fra governi di centro destra e governi di centro sinistra.

E se la politica mostra poca determinazione davanti ad una battaglia dirimente per la strutturazione futura della società di questo Paese, ci si augura che almeno il sindacato, i lavoratori e le lavoratrici, la società civile, si mobilitino contro la precarietà. Con l’obiettivo di cancellare la legge 30 nei fatti e non solo nelle parole a cominciare, da parte sindacale, dal riconoscere l'inammissibilità dell'accordo firmato nel maggio scorso ad Atesia. Non avrebbe senso oggi per il sindacato continuare ad arroccarsi nella difesa di posizioni che se erano errate ieri e sono da ritenersi più che mai insensate dopo l'accertamento, da parte ispettiva, che il lavoro in quel call center era - ed è senza ambiguità - lavoro subordinato. Si dovrebbe invece usare come punto di forza ciò che è stato accertato ad Atesia per rivendicare diritti e tutele per tutti i lavoratori, del settore e non.

Ma anche altro: ribadire, perché sembra sia stato colpevolmente rimosso, che non esistono diritti variabili e che i lavoratori sono tutti uguali e hanno diritto allo stesso trattamento a parità di prestazione, è un assioma che fa bene al lavoro e soprattutto al centrosinistra e al suo elettorato di riferimento. Che sia anche un problema di cultura, la cosiddetta cultura del nuovo capitalismo e di incapacità di lettura e di analisi da parte della classe politica del Paese, apparentemente incapace di leggere i processi di evoluzione e di muoverli a favore dei lavoratori anziché delle imprese, è un dato di fatto triste ma inconfutabile. Ai ricatti delle aziende, come insegna l’Atesia (ma gli esempi possono essere innumerevoli) le risposte della politica e del sindacato sono oggi troppo flebili e impacciate. Così il collasso del sistema è dietro l’angolo. L’altro giorno, l’ad di Atesia, per giustificare il proprio niet alle assunzioni e ai contributi, ha rispolverato il vecchio adagio secondo cui “il problema della flessibilità del lavoro è un problema del mondo”. Al momento ci piace l’idea di riportare il lavoro all’interno di contratti stabili, regole certe e diritti garantiti. A cominciare dal nostro Paese, poi ci occuperemo del resto.