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di Fabrizio Casari

C’erano tutti gli ingredienti. La strage atroce, la furia omicida scatenata contro un bambino e quattro adulti. Solo uno è ancora vivo, pur in condizioni gravissime. Persone innocenti d’ogni peccato, anzi; lei, impegnata nell’assistenza agli anziani, forse uno dei lavori più nobili tra la nobiltà del lavoro. Un bambino che, innocente e puro lo è per definizione, giustamente. E poi due persone, innocenti e nobili anch’esse, intervenute a difesa di quegli inermi. Poi il fuoco, a distruggere prove e tracce, indizi e certezze. Ma non quelle degli inquirenti e dei cronisti che fungono da prolunga dei microfoni. Persino lo scenario sembrava ideale ad una ricostruzione d’appendice. Erba, un paesino isolato in provincia di Como, a dieci chilometri dal confine con la Svizzera. Pronte tutte le analogie e le analisi da psichiatri da quattro soldi sull’impossibilità e l’inafferrabilità delle dinamiche criminose, socio-patologiche, insite in tutte le piccole comunità. Ma, su tutto e sotto tutto, il colpevole giusto, nemmeno fosse stato disegnato con cura. Tunisino. Immigrato. Feroce, come un novello Saladino. Condannato per droga e rapina. Incarcerato. E, pena massima di questi tempi, uscito dal carcere con l’indulto. Pennivendoli a un tanto al chilo si sono lanciati sull’osso da spolpare. Solleticare la pancia dei benpensanti fa notizia, suscita indignazione, crea morbosità. Insomma, tira copie. Il Ris di Parma aveva preceduto, di poco, l’inviato di Bruno Vespa che forse già si sfregava le mani in attesa di approntare l’ennesima puntata di Porta a Porta. Gli inquirenti, dicevamo. Con quale cognizione abbiano offerto ai cronisti affamati di notorietà e di righe in prima pagina i sospetti sul tunisino non si sa. Abdel Fami Marzouk non era a Erba da diversi giorni. Si trovava in Tunisia. Sarebbe bastato telefonargli per saperlo, ma vuoi mettere la delicatezza e la complessità di un’indagine? Pensare di telefonare al primo indiziato, almeno per sapere se risponde per poi, eventualmente, cominciare a cercarlo, dev’essere sembrato un pensiero fuorviante, uno scenario inutilmente complesso, una procedura perditempo per emuli di C.S.I. chiamati a vegliare sulla placida tranquillità delle seimilacinquecento anime. Era già deciso: se non era venuto a costituirsi, se non c’era per salvarli, non poteva che essere fuggiasco. L’infido arabo in preda a raptus di follia e violenza. Una mattanza. Sgozzati, come agnelli, come uso degli integralisti. Vuoi che anche lui, nel fondo non lo sia? V’immaginate un arabo che non sia musulmano? E un musulmano che non sia anche integralista? E un integralista che non sia anche uno sgozzatore? E allora giù con le indicazioni ai cronisti.

Calderoli era ad abbuffarsi in una osteria, dunque non c’erano politici da mungere. Quindi le prime pagine, in assenza di pensieri e parole, mettevano già da ieri suggestioni in evidenza. Evocazioni invece di domande, ci mancherebbe altro. Tutto era così comodo, già scritto, già fatto. Cento righe d’indignazione tra un caffè e una brioche non ci si mette nulla a buttarle giù. E nemmeno servono le solite noiose regole della privacy, quelle che obbligano il cronista alla massima cautela nel pubblicare nomi e generalità di sospetti. Mica era italiano. Mica era facoltoso. Mica viveva in una villa. Mica portava voti. Era un tunisino. Uno come tanti: arabo, pregiudicato ed indultato, tre vergogne in un solo uomo.

Abdel, ovvio, è diventato subito “il fuggiasco”. Ma quei morti, assassinati atrocemente non erano suo figlio e la sua convivente, probabilmente le persone che amava di più? E chi se ne frega. Tutto fila, tutto si tiene. Il feroce che morde la mano di chi l’aiuta; il sovrano menefreghismo per il figlio, magari avuto solo per avere cittadinanza nell’eden di Erba. Lo descrivono alto, carnagione olivastra, occhi profondi, ben vestito. Uno che con le donne ci sa fare. Cinico e spietato, calcolatore e assassino, dunque. E poi gli inquirenti, come chiamano i tre militi della locale stazione che mai avrebbero immaginato di sentirsi definire così, avanzano ricostruzioni d’insieme. Fa niente che i vicini dicono di non aver mai sentito grida o colpi, non bisogna distrarsi con dettagli non funzionali alla storia. Da settimane, spiegano ai cronisti, risultavano diversi episodi di aggressione del Saladino ai danni della sua convivente. La cui famiglia, mobilieri conosciuti e benestanti, mai aveva condiviso la scelta della figlia. E la notte di lunedì, sempre secondo le “prime ricostruzioni”, l’ennesima lite, con i vicini accorsi a sedarla e, per questo, accoltellati. La pena in carcere passi pure, ma la sua liberazione no. E quindi, dopo la pena dell’indulto, la sua compagna e la di lei famiglia volevano allontanarlo. Lui non ci sta. Il figlio non vuole perderlo. Meglio vederlo morto che vederselo sottratto. E quindi giù duri, senza dubbi; tastiera che vola e mestiere che se ne va.

Niente di diretto. Mezze frasi, allusioni, anzi “ipotesi”, come scrivono i più prudenti che però non possono rischiare “il buco”. E, ipotesi su ipotesi, parte la caccia al mostro. Che nelle fantastiche ricostruzioni “è braccato”. E’ scappato col furgone. Posti di blocco ovunque, segnalazioni a tutte le unità. Non ha scampo. Il furgone è stato ritrovato. Vicino casa di un amico che dev’essere italiano, sennò lo avrebbero chiamato complice. Il fuggitivo è dunque nella morsa degli inquirenti, che lo cercano nei boschi e in campagna. E hai voglia a cercarlo. “Lo prenderemo presto” annunciava il sostituto procuratore Lodolini, uno di certo poco avvezzo alle durezze della frontiera, alla prima linea: Erba, d’altra parte, non è certo una piazza che tempra, casomai annoia.

Ma il fuggitivo non fugge, è a casa sua, a Tunisi. Ci si trova da due settimane (un chiaro segnale di premeditazione, leggeremo prossimamente?). Lo confermano i suoi familiari e, tanto per non fidarsi dei familiari arabi di un arabo indultato, lo confermano pure i tabulati telefonici. Allora lo scenario cambia. Dev’essere un regolamento di conti tra spacciatori e rapinatori. Oppure una strage su commissione. In fondo, non è uno stinco di santo. Ma guai a chiamarlo vittima.

E' già tornato ad Erba, Abdel Fami Marzouk. Non a piangere sui suoi cari. A spiegare cosa c’entra, tanto per dare una chiosa degna ad un racconto di cui prologo e svolgimento è stato già scritto.