Lì, al confine, nello spazio tra due paesi, dove le istituzioni latitano e i migranti restano bloccati sine die, si strutturano questioni sanitarie specifiche che minano la loro salute (e la dignità umana). Per fattori di differente natura - da quella amministrativa a quella politica fino a quella personale - che si rafforzano vicendevolmente: alla base, le condizioni materiali alla frontiera, le quali conducono a uno stile di vita che ha conseguenze sul piano fisico e psicologico; l’insalubrità dei luoghi - dalla promiscuità al freddo - è all’origine di certe patologie “tipiche” di quei contesti, vedi lo sviluppo e la diffusione di infezioni dermatologiche e da parassiti.

 

 

“I ragazzi che sono con lui hanno tutti delle forme di scabbia molto vecchie, dicono da mesi, alcuni con evidenti infezioni batteriche. Uno di loro, ci dice in italiano che ha avuto un morso di topo sull’orecchio mentre dormiva (…) E’ gonfio e c’è del pus. Ha altre lesioni con pus sul corpo”, si legge nel report Malati di confine, un’analisi di un anno di report medicali alla frontiera di Ventimiglia, divulgata da Parole sul confine ed Effimera. E con l’impossibilità di mantenere pulita una piaga. O, invece, correndo il rischio di sovraesposizione alle malattie dell’apparato respiratorio, per l’assenza di ripari adeguati.

 

Condizioni di vita e di salute disumane, frutto di una vera e propria strategia politica teorizzata, da alcuni attori istituzionali, come una scelta al fine di ostacolare la permanenza dei migranti perché impossibilitati a soddisfare (finanche) i bisogni primari. Tanto da definire ‘pulling factors’ l’acqua potabile, il cibo e le cure mediche, la cui accessibilità incondizionata favorirebbe l’arrivo e la permanenza dei migranti su uno stesso territorio.

 

Sebbene i numerosi traumi riscontrati dai medici volontari siano legati, per la maggior parte, a “incidenti” di viaggio avvenuti altrove, le frontiere (e Ventimiglia, in particolare) sono contesti “patogeni” in cui è innegabile che le malattie si aggravino a causa della permanenza forzata in una situazione che ostacola anche le più semplici procedure di prevenzione, gestione e cura delle patologie.

 

Ventimiglia, come Calais o Lampedusa, si configura come un “collo di bottiglia” dove qualsiasi fenomeno patologico, indipendentemente dalla sua natura, tende ad aggravarsi. Anche lo stato psichico: disperazione, apatia e malessere spingono tanti migranti ad annegare i pensieri nell’alcol. Consapevoli che “è quel posto che li induce a bere”. E consapevoli, dal canto loro, i volontari che operano ai confini, che scoraggiare l’arrivo e l’installazione dei migranti tramite la soppressione dei cosiddetti ‘pulling factors’ è destinato all’insuccesso (umano).

 

Che coinvolge anche gli europei: “le condizioni di vita non igieniche e l’assenza di un efficace sistema di cure non possono che favorire la diffusione di epidemie, i cui agenti patogeni, dal canto loro, non guardano né la nazionalità né il visto sul passaporto”. E, inoltre, perché in assenza di politiche sanitarie strutturali, gli episodi patologici finiscono per essere trattati tardivamente e, in mancanza di alternative, inviati ai pronto soccorso: ciò non solo ha un costo più elevato ma determina, anche, la sovrasollecitazione del servizio, aumentando il tempo d’attesa di tutti i pazienti. Cosicché il diritto alla salute, in Europa, perde de facto la sua universalità per diventare una conseguenza di “un approccio estremamente miope al fenomeno migratorio contemporaneo”.

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