Da dove vieni? Where do you come from? Una volta era questa la prima domanda che si faceva a una persona straniera, con il rispetto e la curiosità di sapere, di conoscere la sua storia, da dove veniva, per immaginare e anche sognare orizzonti lontani. Da tempo non è più così.  L’ospitalità - preziosa attitudine e consuetudine  di  tutte le popolazioni rivierasche, celebrata fin dall’antichità - è stata soffocata dentro la diffidenza, la paura, l’ostilità. La parola  “straniero” evoca solo distanza, irriducibile alterità.  L’ospite (hospes) diventa il nemico (hostis). Noi e loro, appunto.

 

 

Si alzano allora muri, barriere, si chiudono i porti nell’illusoria convinzione di poter fermare quello che non si può fermare, ma che si deve semmai soltanto cercare di governare. E innanzitutto di capire. I popoli si spostano; per le guerre, la fame, per le devastazioni ambientali, per cercare più dignità.

 

Oggi stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati. 65.6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio paese. Di queste, circa 22.5 milioni sono rifugiati, più della metà con età inferiore ai 18 anni. Sono 10 milioni le persone apolidi cui sono stati negati una nazionalità e l’accesso a diritti fondamentali quali istruzione, salute, lavoro e libertà di movimento. Nel  mondo ogni minuto quasi 20 persone sono costrette ad abbandonare le proprie case per conflitti o persecuzioni.

 

E noi, che civiltà vogliamo rappresentare, difendere? L’integrità dei nostri confini, la purezza della nostra razza, lingua, cultura, religione, contro ogni meticciato? Eppure le nostre madri e i nostri padri costituenti non ebbero dubbi. Proprio a partire dall’esperienza della guerra e del fascismo, quando molti di loro furono costretti all’esilio, scrissero l’articolo 10 della nostra Costituzione, che prevede il diritto all’asilo come un diritto fondamentale dell’uomo, prefigurando un’Europa non come cittadella assediata ma come comunità di donne e uomini liberi.

 

Certo, di fronte a sentimenti così espansi, che evocano rigurgiti di autoritarismo e razzismo, non bastano le anime belle e neppure i predicatori dell’amore universale. Servono politiche serie, che sottraggano innanzitutto consenso tra chi soffre ingiustizia e disagio sociale, che è lasciato solo con diritti e protezioni sempre più deboli. Politiche per il lavoro, per l’aiuto al reddito, per la casa, sono assolutamente deficitarie. Il fondo per le politiche sociali, per esempio, nell’anno 2017 è stato sforbiciato di ben 200 milioni di euro. Non può quindi esserci integrazione per la popolazione migrante dentro la desertificazione sociale delle nostre comunità.  

 

E occorrono politiche migratorie efficaci, che si cimentino con la questione dei flussi, dei corridoi umanitari, della distribuzione sul territorio europeo dei migranti che sbarcano sulle nostre coste, smascherando l’ipocrisia di chi a parole si schiera contro i migranti cosiddetti clandestini  e poi sta a fianco dei mercanti di braccia che usano l’irregolarità per realizzare alti profitti con il lavoro schiavista. 

 

Ma contro l’ideologia della paura, la via maestra resta quella della conoscenza e della relazione. Where do you come from? Dovremmo ricominciare a fare questa semplice domanda, chiedere e ascoltare i racconti delle storie dello loro vite, senza paternalismi, stereotipi (quanti ve ne sono, anche tra chi è impegnato ogni giorno per i diritti civili o è un operatore dei servizi!), senza pretese di supremazia culturale, senza rimuovere la valenza dei contesti, delle culture, dei sentimenti di appartenenza ad una etnia o a una religione. Sta qui l’inizio del reciproco  riconoscimento e quindi il percorso di vera integrazione, di costruzione di cittadinanza.

 

Ma siamo in colpevole ritardo: la sinistra, le forze democratiche, persino il femminismo. Lo jus soli doveva essere una battaglia di civiltà attorno alla quale diffondere pratiche sociali di solidarietà, di reciprocità, trovando le voci per nominare le nostre diversità e le nostre similitudini. Dando  parola ai bambini stranieri che vanno a scuola e sono ormai amici dei nostri figli. Alle donne migranti a cui noi donne occidentali affidiamo il lavoro di cura per garantirci le nostre pari opportunità. Alle mediatrici culturali che lavorano negli ospedali e che insegnano ai medici e agli infermieri quanto la cultura è importante perché influenza l’approccio alle cure, come le persone cercano l’assistenza sanitaria, come si rapportano verso chi eroga la prestazione sanitaria, come le istituzioni si prendono cura dei pazienti e in che modo i pazienti rispondono a questa cura.

 

Serve un’altra narrazione della migrazione, servono le parole dei migranti, assolutamente silenti nel dibattito pubblico nonché politico. Servono le storie di queste persone, fatte di tragedie ma anche di gioie, di speranza e di rimpianti, di coraggio e di solitudine, di conquistata consapevolezza. Di queste storie ne ricordo tante, ascoltate quando facevo il medico al San Camillo e raccolte in un libro prezioso. Sahra, scappata incinta dalla guerra in Somalia, ha raccontato l’odissea del viaggio fino a Lampedusa, in una barca con più di cento persone “…tanti morti, si vedeva solo il mare”. E Maria, arrivata dalle Filippine, passando a piedi il Brennero  da clandestina, racconta dei figli rimasti a casa: “Quando sono lì, loro non chiedono mai niente a me, forse hanno vergogna della loro mamma, di me.” E Bebi: “soffriamo dentro al cuore ma non sappiamo come dirlo, rimaniamo così, senza voce”.

 

E ancora, Janette, scappata dalla guerra civile nello Zaire: “Venire in Italia è stata una crescita,  troppo violenta, però!” Anna Maria: “Ora siamo cittadini europei, non dobbiamo più scappare… è come avere una dignità in più”. E Mily, impegnata nella consulta per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri: “Non abbiamo diritto di parola e di voto...ma dobbiamo andare contro la marea”. Dana, ingegnere meccanico in Romania, partita “per ricerca di libertà, di altri cieli, di un’altra natura”, con una gran rabbia dentro “perché la gente mi vede solo per quello che faccio con le braccia, non per quello che ho nel cervello”. E poi Hana, cui manca l’hammam: “Abbiamo i nostri sogni, quelli sono rimasti.”

 

Tutte raccontano della ricerca faticosa e orgogliosa della propria identità, di donna, di moglie, di madre, di figlia. E lo spaesamento dell’incontro con culture diverse, per se stesse, per i loro figli. Sono  storie di donne, di incontri tra donne, che parlano di loro ma anche di noi: “…Voi donne italiane siete molto brave, lavorate, aiutate la famiglia, ma la donna italiana come sta, poverina?...In Italia le donne  sembrano fragili... qualche femminista dice l’uomo non mi serve, faccio da sola; da noi le donne si sentono forti senza bisogno di dirlo”. E ancora: “Osservando questa donna impegnata e coraggiosa, anch'io ho preso la decisione di vivere da sola, di essere coraggiosa...ho cambiato vita e vado avanti con forza e dignità”. Infine Jasmine, che dice “sono nera, sono musulmana, sono araba, sono di un altro paese, sono una persona proprio strana” e poi riflette “dal punto di vista femminile, mi sono trovata meglio qua...le donne di tutti i paesi possono cambiare il mondo perché noi educhiamo i figli, solo noi possiamo fare un mondo diverso”.

 

Sì, serve un’altra narrazione della migrazione, che vinca la paura e costruisca convivenza. Servono iniziative collettive, pratiche sociali, non per i migranti ma con i migranti, progetti di lavori socialmente utili, per la tutela dei  beni pubblici, svolti sia dagli  italiani che dagli stranieri.

 

Per questo l’evento dell’altro giorno a Milano è stato importante: più di 10.000 persone si sono incontrate in piazza, al Parco Sempione, per pranzare insieme: milanesi, 160 comunità straniere, sindaco, associazioni.

 

Un modo diverso e contrapposto a quello xenofobo esibito dal governo; indica come anche un paese in difficoltà come il nostro sia in grado di immaginare solidarietà e incontro per non precipitare nell’abisso del rifiuto dell’altro, genesi di ogni razzismo.

  

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