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Dopo dieci anni di inchieste e depistaggi, due processi, pressioni indebite e minacce, bugie e insulti, la vicenda processuale sembra prendere un’altra piega. In una lettera inviata alla sorella di Stefano, Ilaria, il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale Giovanni Nistri, ha annunciato che l’Arma si costituirà parte civile nel processo per l’assassinio di Stefano Cucchi.

 

“Abbiamo la vostra stessa impazienza - scrive il comandante generale - che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi sia mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà”. “Io per primo - conclude Nistri - e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita per quei Valori che fin qui ho richiamato, soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell'essere accostati a comportamenti che non ci appartengono”.

 

Vedremo se effettivamente l'Arma si costituirà giudizialmente, se la volontà dichiarata si tradurrà in atti giudiziari concreti, ma certo è un clima diverso quello che ora si respira intorno alla vicenda processuale di Stefano Cucchi. Ilaria, l’indomita sorella di Stefano, si è detta sollevata e felice nell’aver letto la lettera.

 

Cucchi, fermato la notte tra il 22 e il 23 ottobre del 2009, venne sottoposto ad ogni genere di vessazioni e di percosse. Uomini in divisa hanno fatto scempio del corpo di un ragazzo indifeso, colpevole di niente se non di rappresentare agli occhi dei suoi aguzzini il simbolo della devianza alle norme disciplinari che essi vorrebbero come vademecum di tutti agli ordini di alcuni. Venne ucciso dalla violenza cieca dei carabinieri e dalle omissioni che hanno reso ciechi e sordi tutta la filiera, ovvero Carabinieri, operatori sanitari, agenti di polizia penitenziaria. Tutti si sono adoperati affinché la morte di Stefano non superasse la soglia della verità.

 

Stefano Cucchi è stato letteralmente massacrato per dare sfogo agli istinti fascistoidi di omuncoli che si sono riparati dietro l’uniforme. Senza quell’uniforme, infatti, sarebbero stati solo loro stessi, ovvero il nulla con un ombra attorno; con quell’uniforme, invece, si sono sentiti uomini, potenti ed immuni, depositari a piacimento delle umane sorti di chi, diversamente da loro, era solo. Stefano Cucchi non aveva un comandante a coprirlo, al suo fianco non c’era nemmeno un avvocato a rappresentarlo; non disponeva dell’autorità sufficiente per fermarli, non aveva in dotazione un magistrato con occhi e orecchie vigili.

 

Lo hanno picchiato con tutta la ferocia e la rabbia di cui sono capaci, assicurati sull’impunità del loro operare. Quella gestione del proprio potere, che offende in primo luogo quanti, con la stessa uniforme, mettono la loro vita al servizio della comunità, è figlia di un humus che, inutile negarlo, cova negli angoli più profondi di alcuni membri delle forze dell’ordine.

 

Come dimenticare, infatti, gli iscritti al Sap, uno dei peggiori sindacati dei secondini; quelli che al loro convegno applaudirono per 5 interminabili e schifosi minuti agli assassini (già condannati) di Federico Aldrovandi, un’altra vittima della furia incontrollata di cosiddette “forze dell’ordine”.

 

Oggi il Comandante Nistri rompe la catena di omertà con tutta l’autorevolezza del suo grado, ma sarebbe riduttivo scaricare su quattro cialtroni la diagnosi dell’abuso. La morte di Stefano Cucchi, come quella di Aldrovandi e di altri, si deve al fatto che la democratizzazione della polizia è stato un percorso compiuto a metà e rapidamente abbandonato nel ventennio delle destre, che hanno guidato governi e scritto leggi votate a ristabilire l’accanimento contro la devianza sociale e l'ultragarantismo verso i potenti. Sì è rafforzato l’impianto giustificazionista e perdonista verso gli abusi del potere, mentre si è alzata a livelli cileni la durezza delle sanzioni per chi manifesta idee e comportamenti giudicati “antagonisti”.

 

In questo quadro ideologico sono cresciute due leve di agenti e carabinieri e il solleticare i peggiori istinti da parte del ministro dell’Interno Salvini non aiuta davvero. Dunque i responsabili degli abusi non sono solo gli agenti che li compiono, ma anche chi ha indicato ed indica tutt’ora un’area d’impunibilità per loro, chi li ha istruiti alle maniere spicce nei confronti di chi si trovano di fronte, chi ha spiegato loro che l’autorità non può essere discussa e che il solo obiettare è già in qualche modo un atto d’insubordinazione che va represso.

 

Non siamo propensi a recitare il ruolo di anime belle: per quanto disdicevole è ovvio che risiedendo il potere di uno Stato anche nel monopolio della forza, gli addetti alla prevenzione e repressione dei reati stipulano un patto non scritto, che prevede con il fine della salvaguardia del sistema la copertura delle loro azioni, una sorta di amnistia preconfezionata sul loro operare, la garanzia che eventuali eccessi saranno comunque impuniti. E’ così ad ogni latitudine.

 

Ma questo non cancella l’orrore di un massacro ad opera di alcuni uomini in divisa ai danni di una vittima inerme. Le caserme dei Carabinieri, come le stazioni di Polizia ed ogni altro luogo istituzionale, devono per principio svolgere il ruolo di garanzia dei cittadini e non di palestra per gli abusi degli agenti e dei militari.

 

C’è da augurarsi che il processo si concluda con le condanne più severe possibili, senza sconto alcuno, per chi ha dapprima pestato a morte, poi depistato le indagini, quindi dichiarato il falso ed insultato i familiari della vittima. Una sentenza che nell’individuare le responsabilità – che sono sempre individuali - ribadisca anche un concetto generale per quanto elementare: nessuno può morire o venire pestato quando si trova nelle mani delle forze dell’ordine; la condizione di fermato non può diventare quella di ostaggio. Servono sanzioni amministrative e penali, provvedimenti chiari che indichino la violazione dei compiti di tutela dei cittadini come elemento d’incompatibilità con la divisa.

Non esiste autorità che non abusi se non avverte la minaccia delle leggi che li sanzionano. Per fortuna i poliziotti che svolgono degnamente il loro lavoro sono la grande maggioranza. Ma se il convincimento di svolgere il proprio lavoro con passione e professionalità è il merito degli agenti migliori, sarà solo il timore di essere giudicati con almeno pari severità di ogni altro cittadino a fermare le ansie bellicose dei bulli in uniforme.

 

Di fronte alla violazione delle leggi e agli abusi di potere l’uniforme non può essere un’attenuante, semmai un aggravante. Se non altro per uscire da un paradosso di un Paese in gran parte in mano alla criminalità, ma dove però gli abusi delle forze dell'ordine vanno sempre a danno degli innocenti.