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Le Olimpiadi di Tokyo hanno messo in luce un brutto guaio legato alla retorica sportiva. Non c’entra lo sciovinismo da competizione: fare il tifo insieme è bello e, quando va bene, lo è anche esultare. Il problema inizia in sala stampa, con le interviste agli atleti. Chissà perché, quasi tutti i vincitori si sentono in dovere di trarre una qualche conclusione filosofica dal proprio successo. E il concetto che esprimono è più o meno sempre lo stesso: “Questa medaglia dimostra che se ci credi tutto è possibile”.

Di sicuro gli sportivi dicono questa frase con sincerità e convinzione. Purtroppo, però, rimane una frase sbagliata, per non dire una fesseria. La retorica del “getta il cuore oltre l’ostacolo” è un grande inganno in molti campi dell’esistenza, ma paradossalmente ha più successo proprio nell’ambito in cui la sua falsità è più manifesta: lo sport. 

Basta rifletterci un attimo: sei hai le articolazioni fragili, non vincerai l’oro nei 100 metri piani. Se soffri d’asma, non diventerai un campione di stile libero. Se sei alto un metro e sessanta, non schiaccerai mai a canestro. Non importa quanto lo desideri, quanto ti alleni, quanto ci credi. È impossibile e basta, per un motivo brutale quanto ovvio: le condizioni fisiche di partenza non sono uguali per tutti.  

Ma andiamo oltre. A pensarci bene, anche quando i mezzi fisici sono comparabili, il successo di un atleta può essere determinato da fattori imperscrutabili. Immaginiamo due nuotatori che toccano la fine della corsia a un centesimo di secondo l’uno dall’altro. Il tizio che arriva in ritardo ci ha creduto meno del primo? Si è allenato meno duramente? Ha fatto meno sacrifici? Probabilmente no, ma ha perso lo stesso. 

Questo non significa che le medaglie si vincano solo per superiorità genetica o per fortuna: bisogna anche essere motivati e lavorare sodo. Grazie tante. Il punto è che determinazione e impegno sono condizioni necessarie, ma, da sole, non sufficienti a garantire il successo. Lo sappiamo tutti, in fondo, è dannatamente ovvio, ma ci piace lo stesso pensare che “basta crederci e tutto è possibile”.

Ecco, siamo arrivati al punto della questione. Perché ci piace tanto pensare che “volere è potere”? In effetti, questo genere di retorica si estende ben oltre l'ambito sportivo. Ce la propinano per tutta la vita in messaggi esaltanti, che si presentano come discorsi motivazionali ma in realtà sono marketing (abbigliamento, prodotti per il corpo, automobili, perfino società che vendono luce e gas).

Eppure, la retorica del “se lavori sodo ce la fai” è in realtà il contrario di un discorso motivazionale. È una frase reazionaria, tesa al mantenimento dello status quo. Chi ha di più colpevolizza chi ha di meno per tenerlo dov'è: “Se non ce la fai - è il messaggio - la responsabilità è solo tua: non ci hai creduto abbastanza, non hai lavorato abbastanza”. E per rendere la lezione più convincente, i pochissimi che dal basso riescono a salire (spesso estratti a sorte) vengono esaltati come eroi, come prove viventi che la società in fondo è giusta, perché “se ci credi tutto è possibile”.

Questo show è un trucco per nascondere la realtà, e cioè che la realizzazione personale è spesso impedita da barriere economiche, sociali e culturali che nessuno intende rimuovere né mettere in discussione. Il risultato è che nove volte su 10 il successo è appannaggio di chi parte dalle condizioni migliori: per loro, la frase “volere è potere” ha molto più senso.