Il fondamentalismo ultra-liberista e guerrafondaio dell’Unione Europea ha preso un altro meritato schiaffo elettorale nel fine settimana con il ritorno al successo in Repubblica Ceca dell’ex primo ministro, nonché aperto simpatizzante di Donald Trump, Andrej Babiš e del suo partito populista di destra, ANO (“Sì”). La carta delle interferenze russe e della propaganda che vorrebbe l’imprenditore miliardario sostanzialmente al servizio di Mosca è stata giocata anche in questa occasione dal governo uscente di Praga e da Bruxelles. A contare per gli elettori sono state però le questioni concrete e i problemi con cui la maggioranza della popolazione deve fare i conti ogni singolo giorno. In questa prospettiva, le politiche di rigore, l’impulso insensato alla militarizzazione, la restrizione degli spazi democratici, la rinuncia a forniture di gas e petrolio a basso costo, lo spreco di risorse in armamenti e l’escalation di una guerra suicida in Ucraina contro la Russia non sono stati evidentemente temi vincenti nella campagna elettorale del fronte europeista.

 

ANO ha ottenuto un risultato anche migliore di quello che gli veniva accreditato dai sondaggi. Con quasi il 35% dei consensi, il partito di Babiš dovrebbe assicurarsi 80 seggi sui 200 complessivi della camera bassa del parlamento di Praga. La coalizione di centro-destra che sostiene dal 2021 il governo del premier Petr Fiala – Spolu (“Insieme”) – ha perso invece oltre il 4%, scendendo a poco più del 23%, e una ventina di seggi, assicurandosene dopo il voto del fine settimana appena 52. Babiš ha fatto sapere che intende guidare un esecutivo monocolore con l’appoggio esterno di due altri partiti marcatamente anti-europeisti della destra populista. Questi ultimi sono il partito ultranazionalista della Libertà e della Democrazia Diretta (SPD) e quello degli Automobilisti che, assieme, porterebbero in dote 26 seggi.

Il partito di Babiš condivide l’atteggiamento critico verso l’Europa dei governi di paesi come Ungheria e Slovacchia, così che, almeno in teoria, si potrebbe andare verso un blocco di paesi orientali di orientamento nazionalista in grado di influenzare sempre più le politiche russo-ucraine di Bruxelles. Sul fronte interno, invece, a differenza dei due potenziali partner di governo, il partito ANO non ha nel proprio programma l’uscita dall’UE né dalla NATO, attestandosi piuttosto su posizioni pragmatiche. Il vincitore del voto ha infatti subito precisato alla chiusura delle urne che non intende mettere in discussione l’adesione del suo paese all’Europa o al Patto Atlantico. La parziale diversità di vedute tra i tre possibili partner di coalizione non dovrebbe essere comunque un ostacolo insormontabile, mentre lo potrebbero diventare le resistenze del presidente ceco, Petr Pavel. Il presidente, che costituzionalmente ha il potere di scegliere o rifiutare di nominare il capo del governo, ha ribadito domenica il dogma assoluto dell’europeismo, chiarendo che non intende prendere in considerazione candidature, nemmeno di ministri, che vogliono portare il paese fuori dall’Unione.

Sarà quindi da verificare l’attitudine di Pavel nei confronti di un eventuale appoggio esterno dei due partiti anti-europeisti. Su Babiš pendono anche annosi sospetti di conflitti d’interesse, oggetto in passato e ancora oggi di procedimenti legali, uno dei quali collegato a sussidi agricoli europei che avrebbe ricevuto illecitamente dall’Unione Europea. Lo stesso presidente Pavel ha fatto sapere di avere riserve sulla posizione del premier in pectore e non è difficile immaginare che queste controversie possano essere usate per fare pressioni sul futuro governo, influenzandone gli orientamenti economici e, soprattutto, di politica estera.

Nonostante gli allarmi, non ci sono comunque motivi per temere una “rivoluzione” anti-europea a Praga né una normalizzazione dei rapporti con Mosca nel caso di un secondo mandato a capo del governo assegnato a Andrej Babiš. Le difficoltà incontrate tra il 2017 e il 2021 permetteranno a quest’ultimo di navigare le acque politiche ceche con maggiore prudenza, anche se è del tutto possibile un rallentamento dell’attivismo anti-russo e un passo indietro rispetto al coinvolgimento totale nel conflitto a sostegno dell’Ucraina che ha caratterizzato l’azione del gabinetto uscente. Babiš ha ad esempio annunciato il possibile stop all’iniziativa, lanciata da Fiala, per creare un consorzio internazionale con lo scopo di aumentare sensibilmente la fornitura di pezzi di artiglieria a Kiev. Il politico-imprenditore ceco, inoltre, ha già frenato sull’ipotesi dell’adesione dell’Ucraina all’UE.

Non c’è in definitiva da aspettarsi un’opposizione particolarmente ferma ai trasferimenti di aiuti e armi al regime di Zelensky. Tutt’al più, l’eventuale prossimo governo di Praga si asterrà dall’intraprendere iniziative proprie, come aveva cercato di fare il governo di Fiala, ma continuerà ad appoggiare le decisioni sulla guerra in sede europea. Resta il fatto che il conflitto in corso dal febbraio 2022 e i suoi effetti rovinosi sull’economia e i costi energetici anche per i cittadini della Repubblica Ceca sono stati fattori determinanti nelle elezioni del fine settimana e Babiš dovrà dare quindi un riscontro ai suoi elettori in questo senso.

Il leader di ANO, come hanno fatto altri partiti populisti di destra in questi anni, ha capitalizzato il malcontento diffuso verso il governo europeista e gli stessi burocrati europei, fissati con il progetto anti-russo a costo di mandare i singoli paesi membri in bancarotta. L’erosione del potere d’acquisto di lavoratori e classe media in seguito all’impennata dell’inflazione, in primo luogo a causa dell’aumento vertiginoso dei costi dell’energia elettrica, assieme a una gravissima crisi abitativa e a un debito in rapida ascesa, ha prevedibilmente allontanato moltissimi elettori dal governo e dal progetto europeista.

Al partito ANO e a Babiš è bastato, per così dire, impostare la campagna elettorale sulla promessa di aumentare la spesa da dedicare al welfare e l’impegno a sospendere il trasferimento di armi all’Ucraina. Gli elettori hanno compreso perfettamente che le due cose sono direttamente collegate e gli esborsi di denaro pubblico a questi scopi inversamente proporzionali. Il pensiero unico europeo che vorrebbe far credere come non ci sia alternativa all’ortodossia turbo-liberista, al sacrificio per la “democrazia” e il salvataggio dell’Ucraina, nonché a un processo di riarmo senza precedenti per far fronte alla minaccia fantasma della Russia, è stato così respinto dagli elettori cechi, non perché influenzati dalla inesistente o comunque irrilevante propaganda di Mosca, ma perché il ritorno a politiche pragmatiche e non suicide rappresenta una scelta di buon senso ampiamente condivisa, nonostante la totale impermeabilità delle élites europee a queste istanze.

Ciò non comporta evidentemente che l’eventuale ritorno alla guida del governo ceco di Andrej Babiš garantisca l’implementazione dell’agenda del suo partito che, in ambito economico e quanto meno sulla carta, ha molti caratteri apertamente progressisti. Nel vuoto quasi totale della sinistra “liberal”, il populismo della destra incorpora regolarmente elementi di questo genere, quasi sempre però dimenticati o messi da parte una volta conquistato il governo. I risultati del voto in Repubblica Ceca indicano però una tendenza comune che già si era vista con il ritorno al potere di Robert Fico nella vicina Slovacchia grazie al catalizzarsi dell’opposizione contro il precedente governo interamente allineato alle politiche anti-russe di Bruxelles. Stesso discorso si sarebbe potuto fare anche per la Romania dopo le presidenziali di un anno fa, prima che l’intervento della “democratica” Europa, del governo di Bucarest e dei tribunali rumeni annullasse il voto, per poi riorganizzarlo mesi più tardi una volta certi che il risultato sarebbe stato quello desiderato.

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