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Un tribunale distrettuale degli Stati Uniti ha emesso martedì una sentenza che minaccia nuovamente il principio della libertà di stampa e il diritto dei cittadini di conoscere i crimini commessi dal proprio governo. Il 33enne ex analista dell’intelligence militare, Daniel Hale, è stato infatti condannato a quasi quattro anni di carcere con l’accusa di avere passato alla stampa documenti riservati sul programma di assassini operato con velivoli senza pilota (droni) durante la presidenza Obama.

La vicenda di Daniel Hale era diventata uno dei simboli della battaglia per la democrazia e i diritti civili in un’America dove i cosiddetti “whistleblowers” sono sempre più bersaglio di vendette legali da parte del governo federale. Hale è stato incriminato in base al famigerato “Espionage Act” dallo stesso tribunale della Virginia che perseguita Julian Assange e nel recente passato ha tenuto a lungo in carcere Chelsea Manning per ottenere una testimonianza contro il fondatore di WikiLeaks.

I guai per Hale erano iniziati nel 2014 alla vigilia della pubblicazione sul sito The Intercept dei documenti sulla campagna con i droni in Afghanistan, dove egli stesso era stato impiegato nella raccolta di informazioni sui possibili obiettivi da colpire. A suo carico erano stati mossi quattro capi d’accusa secondo il già ricordato “Espionage Act” del 1917 e un altro relativo al furto di materiale di proprietà governativa. Nel 2019 sarebbe stato poi arrestato e, dopo essersi dichiarato colpevole di uno solo dei “crimini” imputatigli per evitare una lunga condanna, rilasciato in attesa del processo. A inizio maggio è finito però nuovamente in carcere poiché, secondo lo stesso giudice che lo ha condannato martedì, aveva violato i termini della libertà provvisoria.

Hale era accusato di avere sottratto 36 documenti da un terminale del governo, di cui 23 non collegati al suo lavoro, e di averne consegnati 17, inclusi 11 “segreti” o “top secret”, al giornalista di The Intercept, Jeremy Scahill. Ben lontano da essere un crimine, il gesto di Daniel Hale permise di conoscere alcuni dettagli esplosivi di un programma di assassini mirati che l’amministrazione Obama aveva intensificato enormemente soprattutto in paesi come Afghanistan, Pakistan e Yemen.

La nuova strategia dell’allora presidente democratico era stata propagandata come una svolta nella “guerra al terrore”, in grado di superare gli eccessi del suo predecessore. Hale aveva invece toccato con mano la realtà della nuova campagna di morte, decidendo di rischiare carriera e libertà per fare arrivare alla stampa i documenti che potevano testimoniare quanto accadeva sul campo. Tra le altre rivelazioni pubblicate da The Intercept grazie a Daniel Hale c’era in primo luogo quella che dimostrava l’esistenza di un vero e proprio elenco segreto di bersagli da eliminare “extragiudiziariamente” con i droni.

Inoltre, il materiale riservato dimostrava che, nonostante la pretesa ufficiale dell’amministrazione Obama di utilizzare un programma di bombardamenti mirati con precisione “chirurgica”, circa il 90% delle vittime dei droni erano civili che non facevano parte della lista degli obiettivi da colpire. Il governo USA si era auto-assegnato la facoltà di uccidere in questo modo anche cittadini americani, nei paesi teatro di guerre e non solo, calpestando completamente i diritti costituzionali.

I criteri con cui le direttive di Obama stabilivano i requisiti che facevano di un determinato individuo un obiettivo da essere eliminato sono stati resi pubblici sempre grazie a Hale. Su questo punto l’ex analista militare si è soffermato in una toccante lettera indirizzata al giudice che ha presieduto al suo processo nei giorni precedenti la sentenza. Nel ricordare il lavoro svolto in Afghanistan nell’ambito del programma di bombardamenti con i droni, Hale parlava della depressione che questa esperienza gli aveva causato, dovuta all’impatto emotivo delle scene a cui era stato costretto ad assistere.

Secondo le regole di ingaggio stabilite dal governo, infatti, praticamente qualsiasi maschio adulto che veniva a trovarsi nelle vicinanze di un sospetto terrorista sotto sorveglianza poteva essere legittimamente assassinato. In questo modo, le statistiche ufficiali dell’amministrazione Obama indicavano un numero estremamente ridotto e falsato di “vittime collaterali” civili.

Nella lettera di Daniel Hale emergevano drammaticamente le implicazioni di una guerra combattuta davanti a uno schermo, con la morte di civili innocenti decisa premendo un pulsante. A questo proposito, Hale scrive del peso della responsabilità di far parte di un programma che provocava l’assassinio in modo raccapricciante di “uomini la cui lingua mi era sconosciuta, i cui usi mi erano incomprensibili e i cui crimini non ero in grado di identificare”. Nella stessa lettera appaiono chiare anche le sue conclusioni più generali su un conflitto a cui ha partecipato attivamente. Hale si chiedeva come “si possa credere ancora che per proteggere gli Stati Uniti sia necessario uccidere persone [in Afghanistan] che non hanno avuto nessuna responsabilità negli attacchi dell’11 settembre [2001]”.

La tesi dell’accusa nel processo a Daniel Hale è consistita nel dimostrare che le sue azioni avevano messo a rischio la vita di militari e funzionari di governo, nonché la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In particolare, secondo il dipartimento di Giustizia, due dei documenti che Hale avrebbe passato a The Intercept sarebbero finiti in una “compilation” pubblicata su internet dallo Stato Islamico contenente consigli destinati ai propri combattenti per evitare di essere individuati e colpiti dalle bombe americane. Secondo i legali di Hale non sono state invece presentate prove che il comportamento del loro assistito abbia avuto conseguenze negative di qualsiasi genere. Se anche così fosse, va sottolineato, la responsabilità sarebbe da attribuire a un governo che conduce operazioni illegali dietro le spalle dei propri cittadini e non certo a chi ha contribuito a rivelare pubblicamente questi stessi crimini.

La richiesta dell’accusa era di nove anni di carcere per Daniel Hale, che sarebbe stata la pena più lunga mai inflitta negli Stati Uniti in un caso di questo genere. Il giudice ha optato invece per una sentenza più “mite”, ma l’intero procedimento rappresenta comunque uno schiaffo alla democrazia e rientra in una strategia che i governi americani degli ultimi anni stanno implementando per combattere qualsiasi fuga di notizie riservate, colpendo sia i “whistleblowers” sia, quando possibile, i giornalisti.

Oltre al caso più eclatante, quello di Julian Assange, vanno ricordati Edward Snowden e la già ricordata Chelsea Manning. Altri due casi hanno inoltre riguardato negli ultimi anni la testata The Intercept, sulla quale erano apparsi i documenti ottenuti da Daniel Hale. Uno è quello dell’ex “contractor” dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), Reality Winner, condannata a più di cinque anni di carcere e recentemente messa in libertà vigilata per buona condotta. L’altro, l’ex agente dell’FBI, Terry Albury.

Entrambi sono stati individuati e incriminati dal governo USA a causa di “errori” commessi dallo staff del giornale on-line nel comunicare con le loro fonti riservate. Queste vicende avevano suscitato molte polemiche e sospetti sulla validità di The Intercept come destinatario di materiale governativo “top secret” e, anche se i contorni non sono del tutto chiari, in molti ritengono che la stessa sorte sia toccata a Daniel Hale.

La condanna di questa settimana non promette dunque nulla di buono per tutti coloro che sono presi di mira in questo modo dal governo americano, a cominciare appunto da Assange. Il carattere vendicativo e, allo stesso tempo, intimidatorio dell’accusa è apparso chiaro anche dalla insolita gestione dei capi di imputazione contestati a Daniel Hale. Anche se quest’ultimo si era dichiarato colpevole di uno dei crimini di cui era accusato, i procuratori del governo avevano declinato un accordo che, in genere, prevede di lasciar cadere gli altri capi di imputazione. Al contrario, il dipartimento di Giustizia dell’amministrazione Biden si è riservato la possibilità di riproporli in un altro futuro processo contro Hale nel caso la sentenza ai suoi danni fosse considerata troppo lieve.