Per chi avesse avuto il piacere o, a seconda dei casi, la sventura di imbattersi nello storytelling della scomparsa di Elisabetta II, non avrà potuto fare a meno di notare la peculiarità bi-dimensionale dell’evento. Nello spazio dello skyline tipico di Londra, spicca la solennità anacronistica della Famiglia Reale. Intorno al castello scozzese, immerso nel verde della campagna circostante, sfilano troupe televisive e sferraglianti carrozze guidate da cavalli, in un progressivo costante aumento della folla, ordinata e silenziosa, che si riversa a rendere omaggio alla corona.

I sudditi, come spudoratamente vengono definiti e in maniera ancora più spudorata si autodefiniscono.

 

Un altro ossimoro spazio-temporale che ha preso corpo dall’8 settembre fino a dieci (lunghissimi) giorni dopo, in occasione dei funerali di una regina, ma molto probabilmente anche di quel briciolo di laicità illuminista che l’Occidente avrebbe potuto e dovuto riconoscersi.

Nel crescendo intercorso tra il doloroso addio alla regina e l’apoteosi delle sue esequie, abbiamo assistito alla ennesima rappresentazione, in modalità debordiana, della Società dello Spettacolo.

La disinvoltura con cui il popolo della regina si è mescolato con il popolo del consumo - e in alcuni momenti si è trattato di una vera e propria simbiosi - ha fugato ogni dubbio sul baratro culturale in cui versa gran parte del continente europeo. Che faccia parte o meno dell’Europa di Bruxelles. Non si vuole certo intervenire sul lato strettamente umano della vicenda, e cioè sulla insindacabile reazione che possa esserci riguardo la perdita di una vita. Quale che fosse, a qualsiasi ceto sociale appartenga.

Se non fosse però che in questo caso è il “rango” che viene esaltato, mitizzato, idolatrato. Fino a quando siano gli esponenti di una delle monarchie più celebrate di sempre, o degli agiografi più appassionati che malauguratamente abbiamo imparato a conoscere in questi anni, non c’è nulla di cui meravigliarsi. Lo sconcerto inizia quando la venerazione s’impossessa del senso comune e della quasi totalità dei mezzi d’informazione.

I quali trainano sapientemente la grandezza di un personaggio, rimasto sulla breccia per settant’anni, occultandone la meschinità e la voracità imperiale manifestate durante tutto il suo periodo di regno. È singolare che tra le pochissime voci di dissenso, tra le più alte (sotto tutti i punti di vista) ci siano state quelle che si sono levate da alcune gradinate degli stadi britannici. Tra le più note, quelle occupate dalla tifoseria del Celtic di Glasgow, già protagonista di notevoli iniziative a favore della campagna “Welcome Refugees”, contro la “mafia UEFA” e i rigurgiti fascisti che in molte curve europee - e non solo, come sappiamo bene - sembrano prendere sempre più il sopravvento. Al contrario, sempre rimanendo in Scozia, l’altra squadra di Glasgow, i Rangers, nella sfida champions con il Napoli ha visto i propri fan sgolarsi fino a diventare paonazzi intonando God save The Queen. Superfluo dire quale delle due “coreografie” abbia avuto maggiore eco mediatica.

D’altronde, ciò che forse troppo superficialmente è stato considerato folklore, è entrato di prepotenza nella normalità della “servitù volontaria”, sebbene a distanza di secoli dal famoso enunciato di De la Boétie. I cappellini bizzarri, la passione per i cavalli, gli abiti sgargianti e imbarazzanti ma d’improvviso eleganti se indossati da sua maestà, le banali frasi di circostanza innalzate a indimenticabili aforismi, lo sfarzo evidente ma miracolosamente ritenuto sobrio sfoggiato negli Epsom Derby o a Wimbledon, finanche i sorrisi appena accennati o le rare passeggiate al di fuori del perimetro reale: tutto ciò è diventato un paradigma indiscutibile e incontestabile di stile, un format esclusivo e irraggiungibile di vita e per questo ancor più inutilmente ambito.

Le estenuanti dirette televisive e le testimonianze quotidiane di omaggio alla regina più amata della storia, tra cannonate a salve e interminabili sfilate militari in divise moderne come d’epoca, restituiscono il tratto inequivocabile di una Storia negata e di un Dominio glorificato. Non a caso, l’unico episodio, tragico e drammatico, nel quale emergono o per lo meno dovrebbero emergere i reali intrighi dei Reali, le trame di potere più lugubri e oscure, è quello che riguarda la irresistibile ascesa e il triste epilogo di Lady Diana. Le responsabilità di Elisabetta sono state derubricate a debolezze umane, a un eccesso di bontà, a una concessione di magnanimità mal riposta e immeritata. La vita di Diana Spencer si è spezzata su un pilone di un tunnel di Parigi, e la verità si è forse polverizzata per sempre nella riabilitazione post-mortem della Principessa di Galles. Una vittima oltre le centinaia di migliaia lasciate sulle terre occupate d’Irlanda e in tanti angoli del mondo, in nome della corona. Davvero esiste un dio che può salvare la regina?

Tuttavia, la morte della novantaseienne sovrana avviene in un momento “ideale”, in un frangente storico caratterizzato da una guerra novecentesca in un mondo lanciato a tutta velocità verso una egemonia unipolare. Lo strapotere dilagante della NATO, sostenuto incessantemente da Stati Uniti e Inghilterra, è messo seriamente a rischio dal conflitto russo-ucraino, un conflitto per procura condotto da Washington attraverso Kiev per piegare Mosca e Pechino. I sacri valori occidentali hanno serrato le fila respingendo anche il minimo abbozzo di critica o il minimo tentativo di una lettura semplicemente indipendente di quanto sia accadendo. E di quanto accadrà, purtroppo, per molto altro tempo ancora. Niente di meglio quindi, che barricarsi dentro la rassicurante apologia dell’era vittoriana e della liturgia consolatoria che propaga, in una finta universalità che rende tutti sudditi felici, soprattutto del pensiero debole. La regina d’Inghilterra è morta, ma è viva più che mai la regina dell’Occidente.

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