La strategia disperata dei governi occidentali per cercare di rimandare il tracollo definitivo del regime di Zelensky sembra basarsi nell’ultimo periodo su due nuovi progetti che, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbero tenere imbrigliata ancora a lungo la Russia in un conflitto che, in ogni caso, in termini di perdite continuerà a gravare sull’Ucraina. Il primo è il possibile trasferimento a Kiev dei missili americani a lungo raggio Tomahawk, mentre il secondo è l’ennesima riformulazione del furto dei fondi russi congelati in Europa, da utilizzare per sostenere lo sforzo bellico ucraino. Entrambe le opzioni hanno in larga misura un carattere propagandistico, visto che implicano ostacoli considerevoli prima di potere essere effettivamente attuate. Il livello di panico diffuso in Occidente in parallelo all’avanzata russa sul campo non esclude però del tutto l’implementazione dei due piani che, come vedremo, avrebbero conseguenze potenzialmente gravissime, prima fra tutte un’escalation drammatica della guerra in atto.

 

La chimera dei Tomahawk

La questione dell’invio dei missili Tomahawk va ricondotta a quella che è apparsa a molti come una inversione di rotta da parte di Trump sulla crisi ucraina, avvenuta con le ormai celebri dichiarazioni del presidente americano un paio di settimane fa durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In quell’occasione, Trump aveva tra l’altro affermato che Kiev potrebbe recuperare tutti i territori perduti in oltre tre anni e mezzo di guerra, inclusa la penisola di Crimea. Per molti, questa presa di posizione era fondamentalmente sarcastica. Essa esprimeva in realtà l’impazienza del presidente per i mancati progressi diplomatici e conteneva forse anche un invito allusivo alla Russia ad accelerare le operazioni militari. L’entusiasmo iniziale dell’Europa aveva infatti lasciato spazio in fretta alla disillusione e alle perplessità circa le vere intenzioni di Trump.

Sta di fatto che la Casa Bianca aveva già in precedenza espresso la propria apertura alla prosecuzione dell’invio di armi in Ucraina, ma attraverso uno schema che prevede l’acquisto di esse da parte dell’Europa, ovviamente dai produttori americani. Anche se è sempre difficile individuare una qualche linea di ragionamento coerente nelle parole di Trump, l’evoluzione delle sue posizioni in queste settimane potrebbe essere dovuta all’insofferenza crescente nei confronti non solo di Putin, ma anche degli altri attori coinvolti nella guerra, in ultima analisi, però, per via dell’incapacità della sua amministrazione di comprendere o fare i conti con le cause ultime della crisi.

Agitare sanzioni o l’invio di nuove e più efficaci armi al regime di Zelensky rientra perciò in questo teatrino, che in definitiva e su un piano superficiale rafforza illusoriamente l’immagine di Trump e degli Stati Uniti come potenza in grado di influenzare gli eventi sul campo. La possibilità di intaccare le scorte di Tomahawk per dare all’Ucraina uno strumento teoricamente in grado di colpire obiettivi in territorio russo – la gittata massima di questi missili è attorno ai 2.500 km – viene venduto infatti come l’ennesimo “game changer” di questa guerra, almeno secondo gli stenografi che lavorano per i media ufficiali in Occidente.

Peccato che una lunga serie di problemi rende questo progetto molto difficile, anche nel caso ci fosse realmente la volontà politica di prendere una decisione definitiva in tal senso. C’è da valutare in primo luogo il messaggio che la cessione dei Tomahawk all’Ucraina manderebbe al Cremlino. Putin lo ha spiegato come sempre con chiarezza nel corso di alcune recenti uscite pubbliche. Proprio nei giorni scorsi, ad esempio, intervenendo al forum organizzato dal think tank Valdai Club, il presidente russo ha ricordato che “è impossibile utilizzare i Tomahawk senza il coinvolgimento diretto di militari americani”. Per questa ragione, l’arrivo dei missili a lungo raggio in Ucraina “implica una fase dell’escalation nuova e qualitativamente differente”, con il quasi certo scontro diretto tra USA e Russia.

Come ha fatto appunto notare Putin, solo personale americano o, tutt’al, più britannico potrebbe operare i sistemi di lancio dei Tomahawk, così come le informazioni di intelligence fornite dagli Stati Uniti sarebbero imprescindibili per individuare gli obiettivi da colpire. La gittata di questi missili mette poi a rischio, almeno in teoria, installazioni civili e militari strategiche fino ad ora considerate fuori dalla portata del nemico, costringendo le forze armate russe a adottare misure eccezionali per contrastare gli attacchi. A ciò bisogna aggiungere che i Tomahawk possono trasportare testate sia convenzionali sia nucleari, così che il calcolo russo di fronte a una simile minaccia sarebbe di natura completamente diversa. I Tomahawk erano stati introdotti d’altra parte proprio per colpire con testate nucleari l’Unione Sovietica in caso di guerra, considerando che in uno scenario di questo genere non sarebbe stato possibile per gli USA utilizzare i B-52 sopra i cieli dell’URSS.

Trump ha assicurato qualche giorno fa di avere già preso una decisione in merito all’invio dei Tomahawk all’Ucraina, ma non ha rivelato quale, mentre attenderebbe di capire da Zelensky che uso intende farne. Anche in questo caso si è nell’ambito della commedia e sono in molti tra gli osservatori a credere che alla fine non se ne farà nulla. Ci sono infatti anche gli aspetti logistici da considerare, cominciando dall’assottigliamento delle scorte americane di questi missili, usati a decine per esempio durante l’aggressione contro l’Iran dello scorso giugno.

Utilità ed efficacia, soprattutto in rapporto ai rischi, sono un altro fattore da valutare con attenzione. Per l’uso dei Tomahawk serve un sistema di lancio chiamato Typhon che ha dimensioni imponenti, essendo composto da diversi veicoli, e richiede una complicata installazione. Questi due elementi renderebbero facilmente individuabili i sistemi di lancio, esponendoli al fuoco dell’artiglieria russa ancora prima del lancio del primo missile. La contraerea di Mosca ha fatto inoltre grandi progressi in questi anni di guerra, così che anche l’eventuale installazione e operatività dei Tomahawk potrebbe non garantire il successo sperato. Infine, più di un analista militare ritiene i Tomahawk in larga misura inutili in uno scenario di guerra convenzionale come quello russo-ucraino.

Soldi russi, ladri europei

A corto di fondi e di armi, oltre che in grave affanno economico e con tensioni sociali esplosive sul fronte interno, i governi europei hanno rilanciato in questi giorni l’idea di utilizzare (rubare) gli oltre duecento miliardi di euro appartenenti alla Russia depositati presso Euroclear, in Belgio, e congelati subito dopo l’inizio delle operazioni militari in Ucraina nel febbraio 2022. Gli interessi derivanti da essi sono già stati in parte trasferiti al regime di Kiev sotto forma di aiuti, mentre i fondi in sé sono rimasti per ora off-limits a causa delle conseguenze che un’azione palesemente illegale provocherebbe per la credibilità – e non solo – dell’Europa.

Presumibilmente partorita dal cancelliere tedesco Merz, l’ultima proposta per mettere le mani sul denaro russo prevede un prestito da 140 miliardi di euro a interessi zero all’Ucraina garantito dai fondi russi, da considerare ufficialmente come “risarcimento” per i danni provocati dalla guerra. Il prestito verrebbe rimborsato solo se Mosca dovesse accettare in futuro di risarcire Kiev. In sostanza, sempre di sottrazione pura e semplice di denaro appartenente alla Russia si tratta, visto anche che il Cremlino molto difficilmente accetterà le condizioni imposte dall’Europa.

Alcuni paesi hanno espresso e continuano a esprimere serie preoccupazioni a proposito di questi piani di requisizione di denaro di altri paesi “parcheggiato” in Europa. Sia per le cause legali che potrebbero innescare, con eventuali risarcimenti miliardari, sia per la concreta possibilità di una fuga degli investitori stranieri davanti al rischio di sequestro di fondi in maniera arbitraria e in qualsiasi momento da parte dei governi europei. Il governo del Belgio, dove si trovano fisicamente i fondi russi congelati, è comprensibilmente il più cauto nell’approccio alla questione. Il primo ministro De Wever ha avvertito che “non esiste denaro gratis” e che “ci sono sempre conseguenze” in caso di azioni illegali. Come minimo, a suo dire, una mossa come quella proposta da Merz deve implicare, se “le cose andassero male”, una responsabilità collettiva dell’Europa e non solo del suo paese.

Nel calcolo dell’Europa deve entrare anche la minaccia russa di rispondere adeguatamente all’eventuale appropriazione dei fondi bloccati. Il Cremlino ha già predisposto gli strumenti legali per nazionalizzare o vendere gli “asset” europei ancora in Russia, valutati attorno ai 240 miliardi di euro. E ciò avverrebbe anche nel caso di implementazione del “prestito” studiato dal cancelliere tedesco, a suo dire fattibile o legale perché tecnicamente non comporta l’uso vero e proprio del denaro russo.

Martedì anche la presidente della banca Centrale Europea, Christine Lagarde, ha messo in guardia dalla confisca dei fondi di Mosca, poiché una decisione simile minerebbe la credibilità della moneta unica, scoraggerebbe gli investimenti in euro e minaccerebbe la stessa stabilità finanziaria dell’Unione. La ex direttrice del Fondo Monetario Internazionale non ha esplicitamente chiesto ai governi europei di astenersi da una iniziativa simile, ma il senso delle sue parole lo ha fatto intendere chiaramente. La Lagarde ha cioè affermato che lo “schema” in discussione, se alla fine applicato, dovrà rispettare le norme del diritto internazionale. Visto che il furto non sembra essere previsto da queste ultime, procedere nella direzione indicata da Merz non potrà che esporre l’Europa a tutti i rischi appena descritti.

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