In un altro segno del fallimento della politica americana di “massima pressione” sull’Iran, il governo di Teheran e quello cinese stanno finalizzando un accordo di ampio respiro che potrebbe avvicinare ancora di più due dei principali nemici strategici degli Stati Uniti. L’intesa da 400 miliardi di dollari in potenziali investimenti è al contempo la risposta iraniana alle chiusure dell’Occidente e la conferma dell’attrazione virtualmente irresistibile dei progetti di integrazione di Pechino nel continente asiatico a fronte di una “proposta” USA basata sulla forza e sull’imposizione unilaterale dei propri interessi.

 

La partnership strategica sino-iraniana affonda le sue radici almeno al 2016, quando fu inaugurata formalmente dalla visita a Teheran del presidente cinese, Xi Jinping. Già da allora, la collaborazione tra i due paesi si inquadrava nel piano comunemente noto come “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative” (BRI). Nel panorama dell’integrazione euro-asiatica a cui tendono le mire di Pechino, la Repubblica Islamica e il suo territorio rappresentano infatti uno snodo cruciale e irrinunciabile.

Il collegamento tra il vicino oriente e, da qui, al Mediterraneo e all’Europa e la Cina occidentale trova il suo fondamentale punto di transito nell’Iran. L’alleanza costituisce com’è ovvio un vantaggio per entrambe le parti. Oltre ai fattori già esposti, la Cina si garantisce una fornitura di petrolio a prezzi (fortemente) scontati, con buona pace dell’embargo imposto dall’amministrazione Trump, e una presenza in un’area del pianeta dall’importanza strategica difficile da sopravvalutare.

Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato più volte nei giorni scorsi dalla stampa americana, impegnata ad avvertire come il possibile arrivo di militari cinesi in una regione che vede il massiccio dispiegamento di forze armate USA rischi di alimentare lo scontro già vicino ai livelli di guardia tra le due potenze.

La dimensione militare dell’accordo è tuttavia quella finora meno definita, anche se tutt’altro che irrilevante, e il ministero degli Esteri iraniano ha tenuto a ricordare come le discussioni in questo ambito siano ancora in corso. Inoltre, sempre a detta di Teheran, non avrebbero alcun fondamento le voci che indicano per il futuro un contingente militare cinese in territorio iraniano o la possibile cessione al controllo di Pechino di alcune isole affacciate sul Mare Arabico.

Confermate e di estremo rilievo sono al contrario le intese per gli investimenti cinesi in Iran che dovrebbero spaziare, entro il prossimo quarto di secolo, dalle infrastrutture energetiche a quelle ferroviarie, dallo sviluppo della rete 5G alla costruzione di fabbriche manifatturiere in svariati ambiti. In questo modo, Teheran sarà in grado di compensare, almeno in parte, le conseguenze dell’isolamento imposto da Washington e la relativa esclusione dalle rotte commerciali internazionali che hanno determinato un’ingente necessità di investimenti nel paese mediorientale.

La partnership in fase di rapido consolidamento tra Cina e Iran è destinata a scontrarsi con l’apparato delle sanzioni – dirette e “secondarie” – degli Stati Uniti, le quali colpiscono o intendono colpire non solo Teheran ma anche e sempre più Pechino, a causa, tra l’altro, dei fatti di Hong Kong o del trattamento della minoranza musulmana Uigura nella regione dello Xinjiang.

La reazione di Washington alle notizie sull’accordo bilaterale sino-iraniano ha confermato la sostanziale impotenza e totale mancanza di visione strategica del governo USA. L’amministrazione Trump continua a restare prigioniera delle mire del “Deep State” che vede le ambizioni cinesi e le nuove dinamiche tendenti al multilateralismo nel continente euroasiatico come una minaccia vitale agli interessi degli Stati Uniti e ritiene di conseguenza che l’unica soluzione siano le già ricordate politiche di “massima pressione”.

Illudendosi che questo approccio porti prima o poi a qualche risultato, una portavoce del dipartimento di Stato non ha saputo trovare altra risposta se non la promessa di “continuare a imporre costi alle compagnie cinesi che operano in Iran”, ovvero, secondo la ridicola retorica americana, “la principale entità statale sponsor del terrorismo a livello globale”.

Mentre gli Stati Uniti insistono nell’arroccarsi su posizioni superate dalla realtà, quanto hanno concordato i governi di Teheran e Pechino rappresenta precisamente la soluzione cercata dalle potenze emergenti alla deriva unilaterale americana che sta minacciando l’ordine e il diritto internazionale. Non solo, la partnership tra Cina e Iran deve essere inserita in un quadro più ampio che coinvolge, almeno in potenza, altri paesi sia nemici che alleati di Washington, tutti sensibili ai richiami cinesi, dalla Siria al Pakistan, dall’Iraq all’Afghanistan.

Il fallimento degli Stati Uniti, ma anche di Israele e di alcuni regimi sunniti del Golfo Persico, è testimoniato anche dal fatto che la diffusione della notizia dell’accordo tra Cina e Iran è arrivata all’indomani degli “incidenti” che hanno interessato impianti nucleari di questo paese e ragionevolmente attribuibili a operazioni di sabotaggio promosse dai rivali di Teheran. Questi episodi, anche se dai contorni non del tutto chiari, possono essere benissimo ricondotti alla campagna anti-iraniana israelo-americana, nell’illusione che possa in qualche modo servire a piegare la resistenza della Repubblica Islamica.

La partnership multi-settoriale tra Cina e Iran ha infine il suo corollario negli sforzi diplomatici sempre più evidenti di Pechino, così come di Mosca, a favore di Teheran. Alle Nazioni Unite, il tentativo americano di estendere indefinitamente l’embargo sulla fornitura di armi all’Iran è di fatto fallito, in un altro segnale dell’impossibilità da parte degli USA di imporre la propria volontà al resto della comunità internazionale. Tutto questo, inoltre, mentre la relatrice ONU per gli assassini extra-giudiziari condannava l’omicidio mirato del generale iraniano Qasem Soleimani a Baghdad a inizio anno come “illegale e in violazione del diritto internazionale”.

Ciò che resta da valutare, oltre all’escalation militare che gli Stati Uniti potrebbero promuovere in risposta agli ultimi sviluppi, è la possibile conciliazione tra orientamenti diversi all’interno dell’Iran circa il livello di cooperazione con la Cina. La stampa americana ha probabilmente ingigantito le divisioni tra le varie fazioni della classe dirigente della Repubblica Islamica, anche se esistono evidentemente voci contrarie che preferirebbero continuare a perseguire politiche rivolte verso Occidente.

La partnership con Pechino, che dovrà ad ogni modo essere sottoposta all’attenzione del parlamento iraniano, ha però la benedizione della guida suprema, ayatollah Ali Khamenei. Gli ambienti “riformisti” in Iran sono d’altra parte sempre più in difficoltà e in minoranza, costretti da tempo in un vicolo cieco principalmente proprio dalle politiche sconsiderate di Washington e dall’impotenza cronica dei governi europei.

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