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Il governo conservatore australiano del primo ministro, Scott Morrison, è da qualche settimana nel vortice di una crisi crescente, esplosa in seguito alle accuse di molestie sessuali e di stupro contro un funzionario e un importante membro dello stesso gabinetto federale. L’identità di uno dei presunti colpevoli è stata resa pubblica solo mercoledì, quando egli stesso, cioè il ministro della Giustizia Christian Porter, è stato protagonista di una sofferta conferenza stampa nella quale ha respinto tutte le accuse a suo carico. Il caso ha molti aspetti discutibili e poco chiari, ma, come spesso accade, anche questo scandalo sessuale è stato sfruttato, se non addirittura orchestrato ad arte, per ragioni tutte politiche dietro a un’improbabile crociata in difesa dei diritti delle donne.

 

Le situazioni che hanno provocato il polverone di questi giorni hanno in comune il fatto di non essere mai state denunciate agli organi giudiziari o di polizia, mentre tutte sono diventate di dominio pubblico grazie a “fughe di notizie” di varia natura. Una volta entrate nel dibattito politico, queste accuse sono state poi subito amplificate dalla stampa ufficiale. Anche molti politici, soprattutto dell’opposizione ma non solo, hanno iniziato a fare pressioni sul governo e, con una dinamica profondamente reazionaria, l’accusato si è ritrovato di fatto senza alcun diritto alla difesa e le accusatrici esentate dal dimostrare con prove concrete la veridicità dei fatti denunciati.

La prima donna a farsi avanti è stata Brittany Higgins, ex membro dello staff del ministro della Difesa del Partito Liberale al governo. Quest’ultima ha raccontato di un abuso sessuale, subito da un collega e avvenuto in circostanze a tratti confuse, che si sarebbe consumato nell’ufficio situato dentro al parlamento federale del ministro, Linda Reynolds. Dopo la denuncia, altre tre donne hanno seguito il suo esempio nel rivolgere accuse simili allo stesso uomo.

A subire i contraccolpi politici più gravi sono stati proprio la Reynolds e il premier australiano Morrison, attaccati da media, opposizione e alcuni membri del loro partito, la prima per “non avere fatto di più” per il caso di Brittany Higgins e il secondo perché “non poteva non sapere” della vicenda. Linda Reynolds aveva in realtà consigliato la presunta vittima di sporgere denuncia formale alla polizia, ma quest’ultima si era rifiutata, adducendo come giustificazione il timore di essere licenziata.

Il secondo caso ha fatto ancora più rumore a Canberra, sia per l’epilogo drammatico che ha avuto lo scorso anno sia per il calibro del politico coinvolto. Venerdì scorso era cioè circolata un’accusa anonima relativamente a un presunto stupro risalente addirittura al 1988. I fatti, per quanto possibile, erano stati oggetto nel 2020 di un’indagine della polizia australiana, ma non portarono a nulla. L’anonima accusatrice si era alla fine tolta la vita nel giugno dello scorso anno.

Secondo il network australiano ABC, amici della donna avevano inviato al premier Morrison e ad altri politici una lettera anonima che puntava il dito contro il ministro Porter e che includeva una dichiarazione della presunta vittima. Dello strupro, la donna ne avrebbe discusso con alcuni conoscenti alla fine del 2019. Inoltre, nello stesso periodo avrebbe anche inviato una lettera per raccontare la sua esperienza all’ex primo ministro, Malcolm Turnbull, predecessore di Morrison e rivale interno di quest’ultimo nel Partito Liberale.

Per quanto riguarda il presunto colpevole, il ministro della Giustizia Porter, come già anticipato ha tenuto una conferenza stampa mercoledì. Il ministro ha ammesso di avere conosciuto ai tempi del liceo la sua accusatrice, ma ha negato qualsiasi comportamento improprio e denunciato gli attacchi nei suoi confronti. Per il momento ha escluso di dimettersi, ma ha fatto sapere di avere chiesto e ottenuto dal premier un congedo temporaneo per ragioni mediche.

È ad ogni modo improbabile che l’iniziativa di Christian Porter metta fine alle polemiche. I fatti di queste settimane indicano un chiarissimo attacco contro il governo federale australiano, la cui posizione appare sempre più traballante. Settimana scorsa, la coalizione di governo aveva già perso di fatto la propria maggioranza alla Camera bassa del parlamento dopo l’annuncio del deputato di estrema destra, Craig Kelly, di uscire dal Partito Liberale. Un eventuale addio al governo o la rinuncia al proprio seggio da parte di Porter metterebbe così ancora più in crisi l’esecutivo guidato da Morrison, decretandone probabilmente la caduta.

Come in ogni scandalo sessuale che coinvolge il mondo della politica, anche in questo caso non è facile decifrarne gli obiettivi. I fatti contestati a Porter potrebbero essere effettivamente avvenuti e implicano indiscutibilmente crimini gravissimi. Le modalità con cui sono venuti alla luce li rendono tuttavia molto sospetti e, soprattutto, hanno innescato come al solito un processo mediatico che presuppone la colpevolezza dell’accusato senza bisogno che la vicenda finisca in un’aula di tribunale.

Nel caso specifico, è utile ricordare le circostanze entro le quali si colloca quest’ultimo scandalo. La classe dirigente australiana è attraversata da tensioni e divisioni principalmente per due motivi. Il primo è da collegare alla pandemia in atto e alle sue conseguenze economiche e sociali. L’altro è di natura strategica e riguarda i riflessi sul paese della rivalità tra Stati Uniti e Cina, rispettivamente alleato storico e primo partner commerciale di Canberra, soprattutto alla luce degli assestamenti determinati dal trasferimento di poteri tra Trump e Biden a Washington.

La considerazione più immediata in merito agli scandali sessuali descritti ha a che fare con il malcontento nei confronti del governo in carica, considerato non in grado di affrontare i problemi del paese garantendo la stabilità del sistema. Nell’ambito COVID-19, ad esempio, il lancio della campagna vaccinale sta incontrando parecchie difficoltà e il governo è andato perciò incontro ad accesissime critiche, come già era avvenuto per la gestione dei vari “lockdown” decisi nei mesi scorsi. Questa nuova fase dell’emergenza risulta cruciale perché da essa dipende la riapertura totale dell’economia australiana, chiesta a gran voce dal business privato. Da considerare c’è anche la necessità di avere un governo forte in previsione del fermento sociale pronto a esplodere, in particolare quando, nelle prossime settimane, termineranno alcune delle misure adottate per attenuare gli effetti della crisi su milioni di lavoratori australiani.

Contro il governo Morrison si sono scagliati, tra gli altri, i leader del Partito Laburista all’opposizione e l’ex primo ministro liberale Turnbull, con l’obiettivo evidentemente di candidarsi come alternative agli attuali equilibri politici. A questo proposito, va ricordato che Morrison aveva cavalcato l’onda trumpiana nell’estate del 2018 per diventare primo ministro a discapito della fazione più “moderata” del suo partito, rappresentata appunto da quel Malcolm Turnbull che è tornato sulla scena politica in queste settimane con l’esplodere degli scandali sessuali.

In altri termini, mentre Turnbull era stato liquidato, probabilmente con il contributo americano, per garantire un maggiore allineamento in senso populista e anti-cinese tra Washington e Canberra, lo stesso ex premier potrebbe tornare oggi utile con Joe Biden alla Casa Bianca e in preparazione di un aggiustamento delle politiche USA nei confronti di Pechino. Saranno comunque i prossimi sviluppi della crisi politica che sta attraversando l’Australia a stabilire la sorte di un governo e di un primo ministro che, ad oggi, sembrano essere avviati rapidamente verso una clamorosa uscita di scena.