Il tentativo di rovesciare il governo centrale nelle isole Salomone e il durissimo scontro politico che continua ad attraversare il paese del Pacifico meridionale sono un riflesso della competizione sempre più accesa che sta mettendo di fronte la Cina agli Stati Uniti e ai loro alleati in questa remota area del globo. Per quanto periferica, la posizione dell’arcipelago a nord-est dell’Australia ricopre un’importanza strategica rilevante, come confermano anche gli eventi accaduti durante la Seconda Guerra mondiale, e le potenze coinvolte nelle vicende interne di questo e di altri paesi dell’Oceano Pacifico investono risorse tutt’altro che trascurabili per fare in modo che i propri interessi vengano garantiti dalle classi dirigenti indigene.

 

La crisi nelle Salomone affonda le radici almeno nella decisione, presa nell’autunno del 2019 dal primo ministro tuttora in carica Manasseh Sogavare, di cambiare il riconoscimento diplomatico da Taiwan alla Cina. Dietro a questa iniziativa c’erano in primo luogo fattori economici che, in linea con la legittima strategia di allargamento della propria influenza internazionale da parte di Pechino, hanno infatti successivamente portato investimenti importanti in questo paese/arcipelago del Pacifico, a cominciare da quello da oltre 800 milioni di dollari destinati alla riattivazione di un giacimento di oro.

La sostituzione di Taipei con Pechino aveva subito messo in allarme una parte della classe politica delle Salomone, quella cioè tradizionalmente legata all’Occidente e agli Stati Uniti in particolare. Il punto di riferimento di Washington era e resta il primo ministro dell’isola/provincia di Malaita, Daniel Suidani, il cui ruolo nell’incitamento alla rivolta della scorsa settimana è stato decisivo.

Alimentando le spinte separatiste che storicamente pervadono questa provincia, Suidani aveva lanciato una campagna anti-cinese dai toni nemmeno troppo velatamente razzisti e continuato a mantenere contatti di natura diplomatica ed economica con Taiwan. Ancora prima del riconoscimento di Pechino come governo legittimo della Cina, nell’estate del 2019 Suidani aveva incontrato una folta delegazione del governo americano, già presente a Malaita tramite organizzazioni come la famigerata USAID o l’Istituto Internazionale Repubblicano.

Dopo quel summit, Washington aveva staccato un assegno da 25 milioni di dollari per la costruzione di un porto sull’isola di Malaita, suscitando l’ira del governo centrale di Sogavare perché il finanziamento era finito direttamente nelle casse dell’amministrazione provinciale. In seguito, il primo ministro era stato accusato di avere ceduto alla corruzione cinese, mentre dal Congresso americano si erano alzate voci che chiedevano l’imposizione di sanzioni punitive nei confronti delle isole Salomone.

I tentativi di rovesciare il governo di Sogavare si sono da allora moltiplicati e la crisi è sembrata raggiungere il punto di rottura tra il 24 e il 26 novembre scorso, quando per tre giorni la capitale Honiara è stata messa a ferro e fuoco da gruppi di rivoltosi, guidati da un’organizzazione separatista della provincia di Malaita legata a Suidani. Più di mille contestatori avevano anche cercato di fare irruzione nella sede parlamento, prima di essere fermati dalle forze di sicurezza. Decine di edifici sono andati distrutti, compreso un comando di polizia e la residenza del premier. La rivolta ha preso di mira soprattutto negozi ed esercizi gestiti da cittadini cinesi e tra le macerie di un palazzo dato alle fiamme sono stati rinvenuti tre corpi carbonizzati. In totale, per le violenze e i saccheggi sono finite agli arresti un centinaio di persone.

In molti hanno sostenuto che le proteste dei giorni scorsi sono state in larga misura spontanee, fatte esplodere da fattori come povertà, disoccupazione diffusa, sfruttamento delle risorse a vantaggio dei grandi interessi domestici e internazionali. Questi elementi hanno avuto senza il minimo dubbio un peso sul caos che ha attraversato per alcuni giorni la capitale Honiara, ma la competizione politica tra i centri di potere che fanno capo a Sogavare e a Suidani e, soprattutto, tra le potenze internazionali ha dato l’impulso decisivo a quello che ha assunto tutti i contorni di un tentativo di colpo di stato.

Gli animi sull’isola di Malaita erano inoltre già surriscaldati dal mese di ottobre, dopo cioè che nell’assemblea provinciale le forze politiche vicine al primo ministro Sogavare avevano introdotto una mozione di sfiducia contro Suidani. La mossa era stata accolta dalle proteste di migliaia di sostenitori di quest’ultimo nelle strade della capitale della provincia, Auki, e alla fine la mozione era stata respinta. Suidani aveva poi continuato a ricevere aiuti da Taiwan, ad esempio di materiale medico per combattere la pandemia, e, dopo una trasferta medica a Taipei, si era lanciato in una delicata discussione sulla possibilità di organizzare un referendum indipendentista nella provincia di Malaita.

La crisi nelle isole Salomone ha avuto un altro risvolto apparentemente singolare durante le violenze nella capitale. Su richiesta di Sogavare, cioè, il governo australiano del premier Scott Morrison ha inviato più di cento soldati e agenti di polizia per aiutare le forze di sicurezza indigene a sedare la rivolta. Altre decine di uomini sono arrivati anche dalla Nuova Zelanda, dalla Nuova Guinea, dalle isole Samoa e dalle Figi. Il contributo di Canberra è stato condannato duramente da Suidani, il quale ha accusato l’Australia di voler “favorire la permanenza al potere di un primo ministro corrotto”.

A prima vista, l’iniziativa australiana sembrerebbe insolita, dal momento che Canberra è totalmente allineata alla linea strategica dettata da Washington e partecipa con ogni probabilità alle manovre in atto per favorire Suidani in funzione anti-cinese. L’invio di forze australiane nelle Salomone potrebbe perciò servire a stabilire una presenza prolungata che consenta di ottenere l’obiettivo di rimuovere dal suo incarico il premier Sogavare. L’Australia aveva già guidato una “missione umanitaria” in questo paese a partire dal 2003 e ciò aveva favorito una campagna di destabilizzazione sempre nei confronti di Sogavare, precedentemente alla guida del governo tra il 2006 e il 2007, conclusasi proprio con un voto di sfiducia nei suoi confronti in parlamento.

Le rassicurazioni di Canberra circa la durata limitata della presenza dei militari australiani nelle isole Salomone e la loro estraneità alle vicende politiche interne sono in ogni caso tutt’altro che credibili. L’Australia ha tradizionalmente enormi interessi nell’area del Pacifico, dove da decenni opera sia in maniera aperta sia dietro le quinte per influenzare le decisioni dei vari governi. A ciò va aggiunto il fatto che la classe dirigente australiana opera di concerto con gli Stati Uniti ed è ormai pienamente coinvolta nell’offensiva anti-cinese di Washington che, appunto, ha tra i propri campi di battaglia le isole dell’Oceano Pacifico.

C’è quindi da scommettere che l’Australia e gli USA continueranno a manovrare per ottenere la testa di Sogavare, malgrado la rivolta alimentata contro il suo governo sia stata per il momento repressa. Il prossimo appuntamento cruciale, anche se probabilmente non decisivo, sarà in questo quadro la mozione di sfiducia contro il premier che l’opposizione presenterà in parlamento nei prossimi giorni. Sogavare ha affermato di non avere dubbi sulla sua sopravvivenza politica, grazie alla maggioranza su cui può contare, ma gli equilibri potrebbero anche cambiare in seguito alle manovre che senza dubbio sono già in atto sotto la regia di Washington e Canberra.

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