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di Roberta Folatti

Quando suo padre morì, Nathaniel scoprì di non esistere. I giornali dell'epoca infatti, parlando della fine del famoso architetto, colpito da infarto nei bagni pubblici di una stazione newyorkese, si limitarono a citare la moglie e la figlia ufficiali, tacendo l'esistenza di Nathaniel e dell'altra sorellastra. Perchè Louis Kahn, per il mondo, aveva una sola famiglia e la sua intricata vita privata era un'appendice nascosta della sua instancabile passione per l'architettura. Personaggio complesso e geniale, figlio di ebrei estoni poverissimi che si trasferirono negli Stati Uniti quando lui aveva sei anni, Louis Kahn dovette combattere anche contro i postumi di un brutto incidente che gli sfigurò il volto. A scuola i compagni lo chiamavano "scarface", ma lui si dimostrò il più brillante del suo corso. My architect, il documentario realizzato dal figlio illegittimo Nathaniel, ricostruisce la sua figura da una visuale molto personale, servendosi di testimonianze filmate, fotografie, racconti di chi gli è stato vicino ma riprendendo e scrutando anche le sue opere, cercando in esse tracce di un uomo per molti versi misterioso. Kahn morì a 73 anni, coperto di debiti perchè non seppe mai "vendersi" furbescamente ai committenti e perchè per lui i soldi erano un dettaglio trascurabile, quasi imbarazzante.
Dalle donne ricevette ammirazione e amore incondizionati, nonostante i comportamenti poco lineari, a volte dichiaratamente vili. La moglie, che gli rimase sempre vicino, lo sostenne anche economicamente, le altre due compagne, che gli diedero entrambe un figlio, ne parlano ancora oggi con stima e rimpianto.

"My architect" intriga perchè si avverte la ricerca pressante di Nathaniel nei confronti di questo padre diventato ispiratore di una generazione di architetti e ormai entrato nel mito. Il suo è un bisogno di capire, di indentificarsi, di ritrovare in quell'uomo quasi sconosciuto un po' di se stesso. Nathaniel indaga il lato umano e quello artistico, e nelle creazioni del padre cerca di intravedere la sua complessa personalità. A poco a poco riaffiorano anche i suoi ricordi di bambino e le aspettative deluse, le risposte sempre rimandate.
Osservando e riprendendo il palazzo del Parlamento in Bangladesh, il Kimbell Art Museum, la Yale Art Gallery e il Salk Institute in California, Nathaniel si sorprende, rimane incantato o dubbioso, cerca di penetrare il senso profondo di quelle opere.

Così pubblico e privato di Kahn si vanno ricomponendo, lasciando però ombre non diradate, come la circostanza del passaporto manipolato al momento della sua morte. L'architetto, di ritorno dal Bangladesh dove stava sorgendo la sua opera più monumentale, aveva cancellato il suo domicilio dai documenti e questo ritardò di molto il suo riconoscimento. La madre di Nathaniel pensò che questo significasse la volontà di Louis di lasciare la moglie e andare finalmente a vivere con loro. Una convinzione che forse non è altro che un'illusione, perchè il geniale progettista era un uomo profondamente irresoluto nella sua vita privata, che lasciò grandi vuoti nei figli e nelle sue compagne.
La visione di "My architet" affascina proprio per questo, perchè mostra un Kahn intriso di contraddizioni, tutto dedito all'architettura come ponte verso l'eternità ma incapace di gestire i sentimenti, preda di paure e debolezze.
Il documentario è stato candidato all'Oscar nel 2004, in Italia è uscito un anno dopo ma nelle sale ha fatto solo una fugace comparsa. Per fortuna è disponibile in Dvd, con in allegato un libro sulle opere di Kahn e un'intervista a Mario Botta, che si considera suo allievo.