Stampa

Cento anni fa, mentre con la più sanguinosa delle guerre le monarchie europee si contendevano il dominio dell’Europa, la Rivoluzione Bolscevica chiudeva per sempre la storia delle monarchie, inaugurando il XX secolo con la più grande storia di ribellione ed emancipazione mai conosciuta.

 

Guidata da Vladimir Ilic Ulianov Lenin, la Rivoluzione Bolscevica cambiava la geografia sociale, politica ed economica, fino a quel momento destinata solo a favorire l’aristocrazia e tirava fuori la Russia dalla prima guerra mondiale. Irrompeva nel libro della storia la classe proletaria, assumevano un volto e un nome i contadini e gli operai non più disponibili ad assoggettarsi al regime zarista. E, per la prima volta nella storia, le donne facevano irruzione nel conflitto sociale e politico: "Le cuoche uscirono dalle cucine", disse a tal proposito Lenin.

 

 

D’improvviso, una massa di sfruttati ed impotenti si fece classe. Mise fine ad un regime feudale, prese in mano le redini di un paese immenso ed aprì al mondo intero una diversa prospettiva di liberazione dalla tirannide prima e di emancipazione delle classi lavoratrici poi. Da dominati divennero governo. Il grande disordine divenne l’Ordine Nuovo. L’unità di misura della politica apprese la scienza delle trasformazioni radicali che, sebbene datesi in un solo paese, si riflettevano sull’intero pianeta.

 

La Rivoluzione Bolscevica, forgiatasi sulla idealità marxista, smentì le previsioni del filosofo di Treviri, che vedeva nella borghesia la classe rivoluzionaria per eccellenza e che, per questo, immaginò lo sviluppo dei processi rivoluzionari nei paesi industrialmente più avanzati, Stati Uniti e Inghilterra in primo luogo. E invece in Russia, come successivamente in Cina e nei processi di liberazione in Asia, in America Latina e persino in Africa, fu il proletariato dei paesi industrialmente meno sviluppati la classe protagonista dei processi rivoluzionari e che avrebbe permesso, con la sua liberazione, quella della società in generale.

 

Con i suoi limiti, con i suoi errori e con le sue rettifiche, la rivoluzione russa fu lo spartiacque della storia, l’inizio di un'altra lettura del Novecento, il secolo che cambiò i paradigmi dell’esistente insegnando che un mondo diverso era possibile. Il nascente capitalismo moderno, che si erigeva sulle macerie delle monarchie e prosperava nel colonialismo, da quel momento in poi avrebbe dovuto misurarsi con un modello nuovo, che dal 1917 chiamava a raccolta le ragioni dei dimenticati, ergeva a metro di misura il bene collettivo e proponeva un nuovo assetto nella storia dell’umanità.

 

L’edificazione della nuova Russia, divenuta Unione Sovietica nella riunificazione di una nazione grande come un continente e nell’abolizione delle differenze tra le etnie contenute al suo interno, dovette affrontare il mostro nazifascista che le borghesie europee avevano concepito prima e legittimato poi. Il nazifascismo, infatti, era stata la risposta disperata di queste, che nell’Unione Sovietica vedevano – giustamente - una minaccia mortale al loro dominio, all’ordine stabilito delle classi dominanti.

 

L’Unione Sovietica fu anche scuola di resistenza, quando per difendersi e difendere l’Europa intera dal terrore nazifascista offrì alla storia 22 milioni di morti per piegare il Terzo Reich e il fascismo italiano. Furono i sovietici a sconfiggere il nazifascismo, respingendolo a Stalingrado e ricaccindolo finoa Berlino. La bandiera Sovietica che sventolò sul Reichstag di Berlino annunciò la fine dell’orrore, la liberazione di un intero continente e l’inizio di una nuova era per tutta l’umanità.

 

Il sacrificio sovietico contro il nazifascismo non aveva solo liberato l’Europa dalla tirannide ma anche spinto su un piano molto più avanzato la lotta per le rivendicazioni di diritti sociali in ogni paese del vecchio continente. Successivamente alla vittoria, infatti, l’esempio dell’Unione Sovietica spinse il proletariato europeo ad un ruolo di protagonista, al punto che il capitalismo uscito dal secondo conflitto mondiale per ridurre la spinta rivoluzionaria dovette utilizzare il welfare-state, ovvero un modello di dominio calibrato sulle concessioni di diritti ai lavoratori divenute inevitabili.

 

L’Unione Sovietica non si limitò, però, a fungere da esempio. Nonostante avesse firmato gli accordi di Yalta, che prevedevano la divisione del mondo in sfere d’influenza, Mosca intervenne ad aiutare, in ogni parte del pianeta, le lotte per l’indipendenza dei popoli oppressi dal colonialismo e dalle dittature militari decise e sostenute dal capitalismo internazionale a garanzia dei suoi interessi.

 

La decolonizzazione in Africa, così come le lotte di liberazione in America Latina, videro il sostegno dell’Unione Sovietica. La rivoluzione cubana poté contare per decenni sull’aiuto sovietico e la stessa Rivoluzione Sandinista, in Nicaragua, ricevette ogni sostegno da Mosca e dall’intero blocco dell’Europa Orientale, decisivo nella difesa del paese aggredito dagli Stati Uniti di Reagan e Bush.

 

Oggi ricorrono i cento anni da quel 1917 che cambiò il destino della Russia e la storia del mondo intero. Quella dell’Unione Sovietica, durata oltre settant’anni, fu non priva di passaggi controversi e di vere e proprie pagine drammatiche. Ma l’ostacolo più importante al processo venne da un assetto interno a forte vocazione burocratica ed accentratrice, poco sensibile alle esigenze di rinnovamento e incardinato nel confronto militare con l’Occidente (che sapeva di dissanguare l’Urss con la continua corsa al riarmo, conscia di una superiorità tecnologica e finanziaria decisive per prevalere nello scontro). Il sistema sovietico non seppe autoriformarsi.

 

Sebbene per la sua composizione territoriale fu in qualche modo costretta ad un modello sviluppista, l'Urss non seppe costruire in parallelo un cammino alternativo all’industrializzazione pesante nella sua produzione. Allo stesso tempo, sul piano politico, sclerotizzò il dibattito politico all’interno della comunità socialista e privilegiò il controllo interno sulla libertà di espressione. Con la riproposizione autoritaria dell’ortodossia ideologica, esaurì progressivamente la spinta affascinante di un modello che aveva cambiato l’umanità, e non fu in grado di valorizzare le modificazioni del costume che, grazie anche al progresso tecnologico, s’imponevano su scala globale.

 

Ma tutto il processo politico che contrassegnò la sua esistenza fu un processo di emancipazione per le classi popolari che oggi in molti rimpiangono, a cominciare dagli ex paesi Oltrecortina. La caduta dell’Urss portò con sé la fine dell'equilibrio bipolare del pianeta e il trionfo del capitalismo neoliberista, che libero da ogni competizione di modello negli ultimi venti anni ha portato il mondo del lavoro e dei diritti sociali vicino al collasso. Il suo affermarsi ha prodotto il punto più basso della civiltà occidentale.

 

Il fallimento delle sue ricette neoliberiste per le condizioni di vita delle classi popolari non è però un errore collaterale, ma la conseguenza voluta del successo per le elites. Al suo massimo grado di sviluppo incontrastato, il sistema che ha vinto ha prodotto la supremazia assoluta dei potenti e determinato un ordine economico ingiusto ed escludente, che rende i poveri più poveri e i ricchi più ricchi.

 

Cento anni dopo quel 7 Novembre del 1917, la speranza è che non sia ancora scritta l’ultima pagina della storia e che la sinistra che verrà serva a fare di questo mondo un luogo meno ingiusto e più degno di essere vissuto.