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di Bianca Cerri

Avrebbe dovuto essere giustiziato ieri notte Michael Johnson, detenuto del braccio della morte del Texas, accusato di aver ucciso un uomo durante un tentativo di rapina avvenuto nel 1995, ma ha preferito farla finita prima che venissero a prelevarlo per portarlo a morire. Il saluto di commiato lo ha scritto con il proprio sangue sul muro della cella che lo aveva ospitato per oltre dieci anni, ma l’amministrazione non ha voluto che fosse reso pubblico. Il protocollo che regola il triste rituale di ogni esecuzione prevede che si debbano attendere le sei del pomeriggio per somministrare l’iniezione letale ma Johnson non ha voluto subire l’ultima umiliazione che le autorità gli avevano riservato. Non voleva essere il numero 22 sulla lista dei condannati messi a morte in Texas dall’inizio dell’anno. Persa ogni speranza, ha preferito uccidersi con le proprie mani. Nella Harris County è raro che si verifichino miracoli: quando i giudici fissano una data di morte la legge capitale segue il suo corso fino in fondo. Il concetto di vendetta ha radici molto profonde nella regione che risalgono alla tradizione evangelica dei pionieri. Quelli che si stabilirono a sud avevano una visione molto rigida della giustizia e ragionavano solo in termini di bianco o nero, buono o cattivo, non erano previste distinzioni. Oggi che in Texas sorgono metropoli abitate da milioni di abitanti, la giustizia vendicativa è rimasta inalterata.

Non esiste neppure un ufficio per il patrocinio legale d’ufficio, solo un pugno di avvocati inesperti che si prestano a fornire una difesa alla buona, sapendo di avere poche, pochissime possibilità di successo. Spesso vengono istituiti processi capitali anche per casi che non rientrano in questa classificazione. La legge, determinata ad uccidere a tutti i costi, aveva deciso per una condanna irrevocabile nonostante Michael Johnson avesse solo 18 anni e si fosse dichiarato innocente. Bastarono le accuse di un diciassettenne, poi completamente scagionato per aver “collaborato con la giustizia”, a spedirlo nel braccio della morte.

L’avvocato di Johnson dice di non averlo mai visto sorridere, la sua espressione era quella di chi aveva perso ogni fiducia nell’umanità intera. Continuava solo a ribadire la propria innocenza e la mancanza di una confessione scritta con il suo nome. Non è la prima volta che un condannato a morte decide di suicidarsi pur di non dover subire una fine imposta secondo canoni decisi da altri, ma è la prima volta che avviene pochissime ore prima dell’esecuzione. Non è mai da escludere che arrivi un rinvio anche quando è già iniziato il macabro rituale, anche se in Texas la possibilità è alquanto remota. L’unico particolare incomprensibile è che, nelle ore che precedono l’esecuzione, i condannati vengono praticamente guardati a vista proprio per impedire che commettano atti estremi ma nessuno si è accorto che Johnson si era tagliato la gola.

I parenti della vittima si ritengono traditi e lo hanno fatto sapere alla stampa. Avevano atteso undici lunghi anni e stavano per realizzare il loro sogno di veder morire l’uomo accusato di aver ucciso il loro congiunto quando è arrivata la notizia che Johnson aveva provveduto a darsi la morte da solo. “Lo ha fatto troppo tardi e questo era il nostro giorno”, ha detto Trish Wetterman, la vedova dell’uomo ucciso. “Se voleva morire in quel modo sarebbe stato giusto che lo avesse fatto dieci anni fa, senza toglierci la possibilità di assistere dopo un’attesa tanto lunga....” La versione più squallida, o forse la più schietta, dell’american dream.