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Categoria: Esteri

Finita la Tregua? Si definisce tregua la sospensione di un conflitto, delle azioni armate e di ogni procedimento ostile. E allora, se così è, nel caso israelo-palestinese bisogna aggiornare la definizione. Tregua? Quale tregua? Nei dieci giorni che la narrazione giornalistica e diplomatica hanno definito di tregua, sono morti decine e decine di palestinesi, uccisi da coloni e soldati israeliani. La tregua ha quindi riguardato solo i bombardamenti aerei, non il fuoco contro tutto ciò che c’è palestinese: bambini, uomini e donne, case e ospedali, strade e ogni genere di installazione necessaria per vivere. In quei dieci giorni di tregua non sono mancati attacchi dalle navi israeliane e non sono finiti i rastrellamenti nelle case dei palestinesi, a voler ricompensare i prigionieri rilasciati con nuovi prigionieri. In quei dieci giorni di tregua le azioni militari israeliane hanno colpito sia Gaza che la Cisgiordania, sia il Libano che la Siria.

 

C’è poi da dire che, normalmente, le tregue sono fautrici di un accenno di accordo, ovvero vengono dichiarate e poi mantenute quasi sempre perché vengono individuate ipotesi di accordo; altrimenti, se le si immagina come semplici pause, più che tregua si dovrebbe chiamare tempo di ricarica, cioè quello necessario a rifornire gli arsenali svuotati.

La ripresa in grande stile dei bombardamenti aerei viene condotta con l’aiuto solito, quello degli Stati Uniti, che con la destra puntano il dito per dire basta alle bombe ma con la mano sinistra, consegnano la nuova fornitura di armi per Tsahal. Gli Stati Uniti hanno appena fornito 15 mila bombe (tra cui 100 da una tonnellata in grado di perforare i bunker sotterranei) e 57 mila proiettili di artiglieria. Così la famosa tregua, che alla fine è risultata una via di mezzo tra un’illusione ottica e una speranza, può finalmente lasciarsi alle spalle il suo carico di velleitaria soddisfazione, esibita in forma scomposta da Stati Uniti da un lato e mediatori arabi dall’altro.

Lo sceneggiato televisivo di Blinken e Biden che premono su Netanyahu, che resiste e solo alla fine capitola concedendo qualche altra ora di “tregua”, è l’aspetto ridicolo di un copione che non ha un lieto fine, perché prevede la fine dei palestinesi. La loro definitiva espulsione da Gaza prima e dalla Cisgiordania subito dopo. Una intera città, un popolo intero, sono di nuovo un bersaglio. Il progetto resta lo stesso: la sostituzione etnica con i coloni che prendono la vita e le cose dei palestinesi, ovvero la versione più autentica e sincera del razzismo sionista. Le parole e gli atti dei coloni risuonano fastidiose e mnemoniche per chi guarda e ascolta. Quello che alcuni ministri del governo Netanyahu affermano pubblicamente non è diverso da quello che si poteva ascoltare dalla voce dei Boeri o Afrikaner in Sud Africa fino alla sua liberazione. Non per caso erano alleati.

All’apartheid nel quale i palestinesi sono stati condannati, al muro di contenzione, all’arbitrio assoluto delle forze di occupazione che decidono se possono circolare persone, luce, acqua e gas, veicoli e medicinali, sono stati l’anticipazione, la prova di accettabilità di un regime segregazionista e terrorista nel terzo millennio, accettato e persino sostenuto dalle dittature liberali occidentali. L’obiettivo di questa campagna militare è sin dall’inizio il ridisegno della mappa del Medio Oriente ed il governo di ultradestra è subito sembrato il veicolo migliore per raggiungerlo.

A Tel Aviv sono stati valutati i contraccolpi politici e classificati come relativi, minuetti da palcoscenico della grande recita mondiale, comunque un prezzo accettabile da pagare per raggiungere l’obiettivo finale: la distruzione di Gaza e l’espulsione dei palestinesi, l’accaparramento delle riserve di petrolio e gas della Regione, il definitivo stabilirsi di un nuovo assetto territoriale prima in fatto e poi in Diritto. Tutta la Regione che confini con Giordania ed Egitto sarà ad esclusiva residenza ebraica e non è che il primo passo, perché se la Siria è boccone su cui rompersi i denti, il Libano fa parte degli appetiti della nuova Pretoria.

 

Bugie a grappolo

Ormai si sono codificati i codici comunicativi per i massacri. Le menzogne precedono e seguono le stragi di innocenti, ma assolvono il ruolo di fornire al mainstream amico la giustificazione per l’ingiustificabile. Dirgli di moderare i bombardamenti è come chiedergli di uccidere senza fare rumore. Netanyahu, invece, di quel rumore ha bisogno. Quel frastuono dell’orrore è il suo tratto identitario, con cui gioca le carte della sua esperienza politica e che pensa possa costituire il passe-partout per quella giudiziaria, perché non va in galera chi serve la Patria, per chi per lei compie il lavoro sporco. Quel rumore lo vuole e bombarda indiscriminatamente con l’obiettivo di distruggere ospedali e centri di ausilio per i palestinesi, non si sa mai possano curarsi e sopravvivere invece di morire.

All’indignazione si risponde con le menzogne o la manipolazione. Di fronte alla timida e ipocrita serie di moniti che dai paesi arabi come da quelli occidentali vengono affinché Tel Aviv “moderi” le sue azioni, ecco che dopo le stragi Israele racconta che proprio l’ospedale preso di mira, aveva dei tunnel dove operavano i guerriglieri palestinesi. Scoperta sensazionale quella dei tunnel sotto gli ospedali: nessun ospedale al mondo ne è privo, dato che i tunnel ospedalieri sono parte della logistica dei nosocomi. Oppure che dove hanno colpito l’ennesimo reparto di chirurgia neonatale, c’era un famoso capo di Hamas. Dunque vige l’idea per la quale la presenza (quando anche fosse certa e non lo è mai) di un uomo che s’intende eliminare, possa prevedere il fatto che insieme a lui ne muoiano a decine o a centinaia. Un’estensione aggiornata della rappresaglia, a cui lugubri e nauseanti maestri avevano fornito una sorta di passaporto logico negli anni ’30 e che, a ben vedere, assume o perde valore a seconda di chi ne è vittima e di chi la esercita.

Le false decapitazioni e i falsi stupri, smentiti da chi li aveva raccontati e si è poi dimessa ma sempre riproposti come veri dalla propaganda sionista, trovano echi tra gli amici fidati, perché il racconto orrorifico di Hamas diventa un’arma per disumanizzare tutto il popolo palestinese e giustificarne il genocidio. Rendendo Hamas simile all’ISIS nei circuiti mediatici mainstream, il regime sionista ha incassato il sostegno di una parte importante dell’opinione pubblica occidentale.

 

L’inoffensiva diplomatica

L’Europa, che pure ha visto il pronunciamento duro di Francia, Spagna e Belgio nei confronti di Israele, tanto per cambiare è concentrata sulle sue faccende finanziarie e sui fragili equilibri di potere che la scomposizione politica tedesca produce e non ha né interesse né voglia di intraprendere il percorso di revisione della relazione con Israele.

Le Nazioni Unite risultano non pervenute causa blocco procurato dall’Occidente e l’eterodiretta Corte Penale Internazionale è in attesa di ricevere ordini da Washington. La Lega Araba ritiene di aver esaurito il suo compito con qualche riga di comunicato al termine della conferenza arabo-islamica di Ryad. E fra tanta finta indignazione e sostanziale indifferenza, fra minacce d’intervento a cui nessuno ha mai creduto e che nascondono la ricerca di ruoli nello scacchiere che conta, sarebbero bastate alcune decisioni di non così grave portata per fermare Israele.

Ad esempio al Qatar, che tanto si è impegnato per fermare i bombardamenti ma che si dice frustrato da tanta intransigenza, sarebbe bastato annunciare il possibile embargo del suo gas all’Europa che arma Israele (Germania in primis) per ottenere miglior udienza e meno intransigenza.

Ma il mondo misura per l’ennesima volta la sua asimmetria, negando ogni sanzione a Israele. Anche solo il 10% delle sanzioni approvate contro la Russia, per Israele sarebbero state esiziali. Potrebbero fermare l’infanticidio, se solo si ritenesse che il valore della vita di un palestinese fosse pari a quello di chiunque altro. Ma se il Qatar è padrone del suo gas, c’è chi è padrone del Qatar e questo vale per tutti gli stati del Golfo come per quelli mediorientali.

I palestinesi, come sempre, passano ogni giorno a contare chi manca all’appello e possono appoggiarsi solo sulla loro tenacia, sul loro amore per la loro terra e per le loro genti. Possono e devono resistere per far sì che il loro genocidio preveda per i nuovi Erode almeno un costo alto da pagare. A noi il compito di non tacere, di ricordare e di chiedere conto a tutte e tutti del loro gridare per fermare la mattanza. Perché anche il silenzio è un modo di uccidere.