Il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita sembra avere subito una nuova battuta d’arresto con la recente presa di posizione contraria da parte della monarchia del Golfo Persico, comunicata in via ufficiale al governo degli Stati Uniti. La notizia non ha per ora trovato conferme, ma le resistenze manifestate da Riyadh al ristabilimento formale di relazioni diplomatiche con lo stato ebraico, soprattutto dopo la distensione promossa con la Repubblica Islamica, avevano fatto da qualche tempo intravedere un epilogo poco incoraggiante per Washington e Tel Aviv.

Qualche giorno fa, il giornale on-line di proprietà saudita Elaph ha scritto che l’Arabia Saudita “ha informato l’amministrazione Biden [dell’intenzione] di interrompere ogni discussione relativa alla normalizzazione con Israele”. Anche se smentita prevedibilmente dai governi americano e israeliano, la notizia è quanto meno sintomatica dei malumori sauditi. I negoziati tra i due paesi fanno parte del progetto, lanciato inizialmente dall’ex presidente Trump, che, attraverso i cosiddetti Accordi di Abramo, dovrebbe portare all’istituzione di normali rapporti diplomatici tra Israele e alcuni paesi arabi.

Dal vertice BRICS a Johannesburg, passando per il G20 a Nuova Dheli e terminando con il G77+Cina a L'Avana, il termine "de-dollarizzazione" è entrato ormai nel lessico abituale della politica, soprattutto quando il Sud globale prende la parola. De-dollarizzazione, dunque. Ovvero, riduzione progressiva dell’utilizzo del Dollaro statunitense negli scambi internazionali e nei depositi di riserve strategiche degli stati. Conseguenze? Riduzione dell’influenza degli Stati Uniti nella gestione dell’economia internazionale. La sola ipotesi genera di per sé un cambio epocale negli equilibri economici internazionali. Si parla non a caso di dittatura del Dollaro, proprio per sottolineare l’influenza assoluta dell’utilizzo della Divisa statunitense sull’economia globale. La sua diffusione e le regole per il suo utilizzo, fissate unilateralmente dell’emittente, determinano una pesante ipoteca degli USA sui mercati internazionali, perché attraverso il potere decisionale sull’utilizzo del Dollaro gli USA decidono quali paesi, quando, dove e in quali prodotti possono commerciare, scambiare, investire.

Gli Stati Uniti e l’Iran sarebbero vicini a finalizzare un accordo per lo scambio di detenuti e, soprattutto, per lo sblocco di sei miliardi di dollari di fondi della Repubblica Islamica congelati in Corea del Sud a causa delle sanzioni unilaterali americane. L’intesa, mediata dal Qatar, deve probabilmente superare ancora qualche sconosciuto ostacolo, ma ha già sollevato interrogativi tra gli osservatori sui possibili riflessi che potrebbe avere, assieme ad alcuni altri recenti sviluppi, sulle trattative – in stallo da tempo – per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA).

Definito da tutti i partecipanti e dall’insieme degli osservatori un “compromesso accettabile” tra le resistenze dell’unipolarismo occidentale al mantenimento dell’asse politico in chiave ultra monetarista e le pressioni del Sud globale, che hanno portato all’immissione dell’Africa nell’organizzazione, si è concluso il Vertice del G20 di Nuova Delhi.

Per l’assalto alla sede del Congresso americano del 6 gennaio 2021 sono già state avviate più di 1.100 incriminazioni formali negli Stati Uniti ai danni di sostenitori di Donald Trump. Oltre 300 sono invece le sentenze di condanna emesse, ma la più pesante e significativa è stata quella di martedì contro l’ex leader della formazione paramilitare di estrema destra, Proud Boys, Henry “Enrique” Tarrio. Informatore dell’FBI e tra i registi – o presunto tale – del tentato golpe seguito alle presidenziali del 2020, Tarrio dovrà scontare 22 anni di carcere per il reato di “sedizione” nonostante non si trovasse fisicamente a Washington nel giorno dell’attacco a “Capitol Hill”.


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