Segnali contraddittori continuano ad arrivare dal fronte diplomatico russo-ucraino, con l’amministrazione Trump che evidenzia sempre più segnali di impazienza di fronte alla fermezza di Mosca e alle resistenze di Kiev ad accettare un accordo per mettere fine alla guerra che, inevitabilmente, si prospetta ben poco vantaggioso. A Londra doveva andare in scena mercoledì un vertice cruciale tra i sostenitori di Zelensky per discutere di quella che la Casa Bianca ha presentato come l’offerta “finale”, concordata presumibilmente nei giorni scorsi con il Cremlino. Dopo la rinuncia già annunciata ieri del segretario di Stato USA, Marco Rubio, e dall’inviato del presidente, Steve Witkoff, il summit è alla fine sostanzialmente saltato, con gli organizzatori che lo hanno “declassato” a un incontro tra funzionari di rango più basso dei governi partecipanti.

Il numero uno del Pentagono, Pete Hegseth, è ripiombato in un vortice di polemiche dopo la pubblicazione nel fine settimana di due articoli su altrettanti media ufficiali che hanno messo ancora una volta in discussione il suo ruolo alla testa della macchina da guerra americana. L’ex “anchor” di Fox News è finito questa volta sotto il fuoco incrociato di New York Times e Politico in relazione a nuovi particolari sullo scandalo del mese scorso della chat di Signal, dedicata all’aggressione militare contro lo Yemen, e alle durissime accuse rivoltegli da un ex funzionario del dipartimento della Difesa.

Dopo il primo round di negoziati indiretti in Oman, Roma ospita i colloqui tra Stati Uniti e Iran aventi come oggetto il programma nucleare dell’Iran. Gli USA vorrebbero ridurre all’ambito convenzionale la difesa iraniana per impedire che una eventuale azione di forza di Tel Aviv possa trovare una risposta capace di colpire con grande efficacia Israele. Si vorrebbe mantenere uno status quo che vede Israele libero di articolare la sua politica genocida senza il timore di dover pagare con la sua incolumità.

La Casa Bianca torna a negoziare dopo aver prima firmato con Obama e poi stracciato con il primo Trump, l’accordo denominato 5+1 propiziato dall’Italia e firmato da Francia, Gb, USA e Germania, che individuava nella legittimità iraniana a dotarsi del nucleare in chiave energetica per scopi pacifici a patto di consentire controlli AIEA. Nel 2018, durante il suo primo mandato, era stato lo stesso Trump a ritirare gli USA dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo sul nucleare iraniano varato sotto l’amministrazione di Barack Obama nel 2015. Confermando così come Washington non sia certo un interlocutore credibile o affidabile, visto che il concetto di eredità storica nella politica estera statunitense vale poco.

La prestigiosa università privata di Harvard è stata questa settimana la prima istituzione accademica americana a rifiutarsi di cedere alle “richieste” dell’amministrazione Trump di sottoporre di fatto al controllo governativo le attività didattiche e di reprimere ogni forma di opposizione politica o manifestazione di protesta nel campus. La Casa Bianca ha per tutta risposta congelato i consistenti fondi federali di cui gode l’università con sede a Cambridge, nel Massachusetts. La posizione dei vertici di quest’ultima non appare però del tutto irremovibile, visti i precedenti degli ultimi mesi e alla luce del fatto che tra le dichiarazioni ufficiali di questi giorni si intravede una certa disponibilità al compromesso. Lo scontro con Harvard potrebbe in ogni caso motivare altri istituti americani a resistere ai diktat di Trump, nel quadro di uno scontro che vede in gioco principi democratici fondamentali, a cominciare dalla libertà di espressione, sempre più sotto attacco da parte dell’amministrazione repubblicana.

L’attacco russo di domenica scorsa nella città ucraina di Sumy continua a essere oggetto di un’accesa campagna di propaganda occidentale, in particolare europea, nel tentativo di sfruttare l’evento per complicare ancora di più i negoziati in corso tra Mosca e Washington. Il livello di cinismo e ipocrisia, da parte sia dei governi sia dei media ufficiali, è come sempre stratosferico, ma l’ennesima pessima figura potrebbe essere stata almeno in parte evitata se gli accusatori di Putin e della Russia avessero prestato una qualche attenzione, invece che solo alla versione del regime di Zelensky, alle reazioni all’attacco missilistico registrate tra alcune personalità politiche ucraine. Quindi, non esattamente filo-russe.


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