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Se Julian Assange e i suoi legali volessero conoscere in anticipo il tipo di trattamento che il governo americano riserverà al fondatore di WikiLeaks se estradato negli Stati Uniti, tutto ciò che dovrebbero fare è analizzare la recente pesantissima sentenza di condanna emessa contro un’ex ingegnere informatico della CIA. Il 35enne Joshua Schulte potrebbe restare in carcere per i prossimi 40 anni, dopo che è stato ritenuto colpevole da un tribunale di New York di svariati reati riconducibili, tra l’altro, al famigerato Espionage Act, in base al quale lo stesso Assange rischia una condanna a 175 anni una volta che metterà piede sul suolo americano.

 

Schulte era alla sbarra in tre procedimenti separati che si erano conclusi lo scorso anno, mentre qualche giorno fa è stato appunto emesso il verdetto che ne ha stabilita la pena. La giustizia USA lo ha giudicato responsabile di quella che alcuni agenti della CIA avevano definito “l’equivalente digitale di Pearl Harbor”. Dall’agenzia di Langley erano stati trafugati circa 180 gigabyte di informazioni che WikiLeaks aveva iniziato a pubblicare nella primavera del 2017 col titolo di “Vault 7”.

La “più grande perdita di dati nella storia della CIA” aveva scatenato il panico e la collera tra l’amministrazione Trump e i vertici della principale agenzia di intelligence d’oltreoceano. Da quel momento, l’apparato di potere americano aveva dichiarato definitivamente guerra ad Assange e a WikiLeaks. L’allora direttore della CIA, Mike Pompeo, aveva dichiarato pubblicamente che WikiLeaks sarebbe stato trattato come “un’entità di intelligence ostile non legata a nessuno stato”. Come tale non avrebbe goduto di alcun diritto costituzionale o democratico.

Le rivelazioni dei crimini e delle macchinazioni della CIA avevano anche spinto Pompeo e la cricca responsabile della “sicurezza nazionale” nell’amministrazione Trump a considerare il rapimento o l’assassinio di Julian Assange, allora ancora rifugiato all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Questi piani sarebbero stati poi abbandonati, ma il caso “Vault 7” aveva segnato un cambio di passo nella persecuzione di Assange da parte del governo di Washington.

La condanna di Schulte rispecchia l’intenzione della CIA di vendicare la fuga di informazioni e di farne un esempio per scoraggiare qualsiasi aspirante “whistleblower”. I 40 anni di carcere decretati dal tribunale di New York non lasciano dubbi sul fatto che l’imputato venga considerato niente meno di un terrorista dal governo americano e, ancora di più, che la giustizia USA si è mossa nei suoi confronti con la stessa ferocia che Washington attribuisce solitamente ai regimi dittatoriali.

Schulte si è comunque sempre dichiarato innocente dei reati attribuitigli e nel corso dei processi aveva sostenuto che la CIA voleva a tutti i costi individuare velocemente un colpevole del trafugamento di informazioni, viste le pressioni a cui i vertici dell’agenzia erano sottoposti dopo la pubblicazione del materiale. Schulte era in questo senso la figura ideale, sia per il suo comportamento talvolta eccentrico sia per i parecchi diverbi che aveva avuto con colleghi e superiori prima di dare l’addio all’agenzia alla fine del 2016.

Nelle prime fasi dell’indagine, Schulte era stato anche incriminato per il possesso di materiale pedopornografico. Sia che quest’accusa fosse giustificata o meno, non c’è dubbio che il governo abbia avuto attraverso di essa la possibilità di tenere imbrigliato nelle maglie della giustizia l’ex informatico della CIA mentre veniva costruito faticosamente il caso per le accuse relative alla sicurezza nazionale.

Secondo i legali di Schulte, i documenti arrivati a WikiLeaks circolavano tra molti ex funzionari e “contractors” della CIA, mentre il livello di protezione garantito dal server dell’agenzia su cui si trovavano era estremamente basso, così da rendere piuttosto semplice l’accesso a essi. In maniera indiretta, la debolezza del caso contro Schulte era stata dimostrata anche dall’annullamento del processo a suo carico nel marzo del 2020 o, più precisaente, dalle pratiche scorrette e illegali utilizzate dall’accusa – ovvero il governo americano – per assicurasi una sentenza di condanna.

La giuria non era riuscita in quell’occasione a raggiungere un verdetto e il giudice del tribunale federale di Manhattan aveva annullato il processo. Durante il procedimento erano emerse gravi irregolarità nella gestione del testimone-chiave dell’accusa. Inoltre, la difesa aveva denunciato un clima di intimidazione e il controllo sistematico della corrispondenza e dei colloqui tra Schulte e i suoi avvocati.

In aula, Schulte ha descritto le condizioni intollerabili della sua detenzione in oltre cinque anni, in un'altra anticipazione di ciò che attende Assange negli Stati Uniti. Tortura è il termine più adatto a caratterizzare la situazione imposta a Schulte, costretto, tra l’altro, in stato di isolamento perenne, a vivere in una cella tra escrementi di topi e a lavare i suoi indumenti nell’acqua dei servizi igienici.

La notizie della condanna a 40 anni di carcere deliberata nei giorni scorsi è stata riportata anche dalla stampa ufficiale americana, ma giornali e network hanno dato maggiore rilievo alla gravità della fuga di informazioni alla base del processo e del presunto danno causato alla CIA o alla stessa “sicurezza nazionale” degli Stati Uniti. Quasi tutti si sono invece astenuti dal ricordare il contenuto dei documenti fatti arrivare a WikiLeaks, che ricostruivano un quadro fatto di operazioni clandestine di hackeraggio, sorveglianza e sabotaggio su una scala difficilmente immaginabile.

Tra le attività rivelate si può ricordare l’uso massiccio di malware per infettare i sistemi informatici di nemici e rivali degli USA, ma anche l’introduzione di programmi per assumere il controllo di qualsiasi dispositivo elettronico, incluse le “smart TV” e i computer di bordo delle moderne automobili. Altri strumenti in mano alla CIA descritti da “Vault 7” permettevano poi di accedere ai programmi di chat telefoniche criptate e di hackerare determinati sistemi informatici lasciando tracce che avrebbero condotto erroneamente ad attribuirne la responsabilità a paesi come Russia, Cina, Iran o Corea del Nord.

Per quanti avessero ancora qualche dubbio sulle “garanzie” che la giustizia americana darà al governo britannico nell’ambito del caso Assange, la vicenda di Joshua Schulte deve servire da serissimo monito. La sorte del fondatore di WikiLeaks è a un crocevia. Tra il 20 e il 21 febbraio si terranno le udienze per l’ultimo ricorso contro la sua estradizione negli USA. Se, come tutto fa pensare, dovesse essere respinto, Assange vedrà esaurite le possibilità di appello nel Regno Unito, lasciandogli come ultima possibilità teorica l’intervento della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.