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Il probabile vincitore delle elezioni presidenziali in Indonesia di questa settimana è un ex generale delle forze speciali durante la dittatura di Suharto, profondamente implicato in assassinii, rapimenti e svariati altri sanguinosi episodi di violenza. Prabowo Subianto avrebbe ricevuto poco meno del 60% dei consensi già al primo turno, anche se i dati sono per ora basati su proiezioni provvisorie, in attesa di quelli ufficiali che verranno annunciati solo dopo la metà di marzo. L’Indonesia è il quarto paese più popoloso al mondo e una delle principali potenze dell’Asia orientale. Per queste e altre ragioni è oggetto di un’accesa competizione internazionale e il cambio della guardia ai suoi vertici politici e istituzionali potrebbe avere conseguenze importanti negli equilibri strategici di tutto il continente asiatico.

 

Il 72enne ex alto ufficiale indonesiano era alla terza candidatura alla presidenza, dopo essere stato sconfitto nel 2014 e nel 2019 dal presidente uscente, Joko “Jokowi” Widodo. Quest’ultimo ha lasciato l’incarico con indici di gradimento vicini all’80%, ma non ha potuto cercare un terzo mandato per via dei limiti imposti dalla Costituzione. È comunque lo stesso Jokowi ad avere favorito il successo di Prabowo, nonostante la passata rivalità. Jokowi aveva infatti appoggiato ufficialmente Prabowo dopo che, attraverso una manovra di dubbia legalità, suo figlio, Gibran Rakabuming Raka, aveva ottenuto la candidatura a vice-presidente nel “ticket” guidato dall’ex generale.

Gibran ha 36 anni, ma la legge elettorale indonesiana prevede che per candidarsi alla presidenza e alla vice-presidenza occorre averne almeno 40. Il caso era finito davanti alla Corte Costituzionale, dove un giudice cognato di Jokowi e nominato da quest’ultimo aveva assicurato il voto decisivo nella sentenza favorevole a Gibran. La Corte aveva stabilito che i limiti di età potevano essere annullati se il candidato aveva ricoperto una carica elettiva a livello locale. Gibran era il sindaco della città di Solo e ha potuto così correre per la vice-presidenza. In seguito alla polemica che era esplosa, il giudice in questione sarebbe stato rimosso a causa del chiaro conflitto di interessi, ma il verdetto non è stato revocato.

Jokowi viene accusato di volere istituire una sorta di successione dinastica e di conservare la propria influenza sul governo del paese. Per raggiungere questi obiettivi, il presidente uscente aveva anche sfidato il suo partito (PDIP), il cui candidato, l’ex governatore della provincia di Giava Centrale Ganjar Pranowo, era in queste elezioni uno dei due sfidanti di Prabowo Subianto. Sempre secondo i dati parziali, Ganjar ha ottenuto meno del 20% dei voti espressi, dietro anche all’ex governatore di Giakarta, Anies Baswedan (25%).

Le regole elettorali indonesiane hanno un carattere decisamente anti-democratico, visto che consentono in genere un numero ristrettissimo di candidati alla presidenza e tutti legati all’establishment politico. Qualsiasi aspirante alla guida del paese deve dimostrare di avere il sostegno di uno o più partiti che occupino almeno il 20% dei seggi in parlamento oppure che abbiano ricevuto il 25% delle preferenze nelle ultime elezioni. Per quanto riguarda invece le presidenziali, il ballottaggio può essere evitato se un candidato ottiene più del 50% dei consensi e almeno il 20% in ognuna delle 38 province in cui è suddivisa amministrativamente l’Indonesia.

Oltre all’appoggio di Jokowi, l’altra carta vincente di Prabowo Subianto sembra essere stata una campagna elettorale che ha puntato sulla trasformazione completa della sua immagine, da ex alto ufficiale con inclinazioni ultra-autoritarie ad anziano benevolo, quasi da cartone animato, in grado di connettersi con le nuove generazioni. L’età media degli oltre 200 milioni di indonesiani con diritto di voto è di 30 anni e per un’ampia fascia di elettori la dittatura del “Nuovo Ordine” di Suharto e le accuse di crimini contro l’umanità che pesano su Prabowo sono tutt’al più un dettaglio. La campagna martellante proposta soprattutto sui social media da quest’ultimo e dal suo vice, assieme alla connessione evidenziata puntualmente col popolare presidente uscente, ha dato alla fine i risultati sperati.

Nella realtà, Prabowo Subianto è invece un ex generale sanguinario e ora ricco imprenditore, nonché opportunista e avido di potere, che aveva visto decollare la sua carriera militare grazie al matrimonio con una delle figlie di Suharto. Il padre faceva anch’egli parte della cerchia dell’ex dittatore, avendo fondato la prima banca statale indonesiana e ricoperto incarichi ministeriali dopo il colpo di stato del 1965-66 appoggiato dalla CIA, nel quale furono massacrati almeno un milione di membri del partito comunista, operai, contadini e oppositori in genere.

Alla metà degli anni Settanta, Prabowo entrò a far parte delle famigerate forze speciali militari indonesiane (Kopassus), incaricate della violenta repressione degli oppositori del regime. Il probabile nuovo presidente indonesiano si era distinto nei massacri compiuti nel tentativo di schiacciare il movimento indipendentista a Timor Est, così come in seguito subirono la stessa sorte gli attivisti della regione di Aceh e Papua Occidentale. Sul finire della dittatura, Prabowo svolse altri incarichi di primissimo piano nelle forze armate indonesiane, contribuendo a reprimere la crescente rivolta nel paese contro Suharto. A questo periodo risale il rapimento e la tortura sotto il suo comando di una ventina di studenti, 13 dei quali restano a tutt’oggi scomparsi. Prabowo sarebbe stato allontanato dall’esercito con disonore, ma mai incriminato in maniera formale.

Dopo qualche anno di esilio volontario all’estero, Prabowo tornò in Indonesia per fondare il partito politico della destra populista Gerindra e nel 2009 si candidò senza successo alla vice-presidenza con Megawati Sukarnoputri, figlia del primo presidente indonesiano, Sukarno. Nonostante il padre fosse stato deposto dal colpo di stato che portò al regime di Suharto, di cui Prabowo avrebbe beneficiato enormemente, Megawati fu di fatto l’artefice della riabilitazione politica dell’ex generale.

Come già anticipato, Prabowo si candidò anche alle presidenziali del 2014 e del 2019. Nel primo caso l’immagine che intendeva proiettare era quella di uomo forte che auspicava apertamente un ritorno ai metodi autoritari del periodo di Suharto. Cinque anni più tardi, invece, provò la carta dell’alleanza con gli ambienti musulmani conservatori, anche se egli stesso non aveva particolari inclinazioni religiose e la madre e un fratello fossero di fede cristiana. Alla chiusura delle urne nel 2019, Prabowo denunciò presunti brogli per poi fomentare manifestazioni di protesta contro Joko Widodo. Alla fine, il presidente appena riconfermato avrebbe offerto l’incarico di ministro della Difesa al suo rivale.

Il successo nel voto di questa settimana di Prabowo Subianto, se confermato nelle dimensioni molto nette evidenziate dai dati provvisori, oltre a dipendere dal fattore continuità con l’amministrazione Jokowi, indica anche un certo compattamento della classe dirigente indonesiana attorno a una figura autoritaria come appunto quella dell’ex generale di Suharto. La scelta di Prabowo non è evidentemente casuale, né i piani più o meno espliciti per invertire le riforme democratiche del periodo post-dittatura un elemento di disturbo.

Se, da un lato, l’immagine di democrazia consolidata serve a promuovere la posizione internazionale dell’Indonesia e ad attrarre investimenti dall’estero, è evidente che l’approdo alla presidenza di un politico col passato di Prabowo rappresenta un avvertimento da collegare al periodo di instabilità interna ed esterna che ci si aspetta anche a Giakarta. Va ricordato infatti che, malgrado il sostanziale successo della presidenza di Joko Widodo, le tensioni sociali non sono mancate negli ultimi anni.

Proteste e fortissime resistenze erano esplose ad esempio nel 2020 in occasione dell’approvazione di una “riforma” di vasta portata voluta dal presidente, sotto forma di legge “Omnibus”, che, con la scusa di favorire la creazione di posti di lavoro, costituiva un attacco frontale contro i diritti dei lavoratori indonesiani. Anche sul fronte esterno i venti di crisi non hanno tardato a manifestarsi in questi anni, a causa principalmente della rivalità tra Stati Uniti e Cina che si sta consumando soprattutto in Estremo Oriente. Giakarta ha potuto comunque conservare fino ad ora una certa neutralità e relazioni positive sia con Washington sia con Pechino.

Gli orientamenti di politica estera del prossimo presidente saranno quindi sotto la lente d’ingrandimento di analisti e governi di tutto il mondo. I solidi rapporti instaurati con Russia e Cina in ambito economico e, in particolare con la prima, della sicurezza non dovrebbero subire scosse eccessive con Prabowo. Il ruolo dell’Indonesia in organizzazioni come il G20 e l’ASEAN, la ricchezza delle sue risorse e la posizione geo-strategica che occupa ne fanno tuttavia un obiettivo delle mire americane.

Nei confronti di Prabowo, Washington ha un passato burrascoso, ma l’apparenza della linea dura contro ufficiali militari o ex dittatori colpevoli di gravi crimini viene facilmente abbandonata se le priorità strategiche lo richiedono. L’amministrazione Clinton aveva tagliato i rapporti con il Kopassus nel 1999 e vietato a Prabowo l’ingresso negli Stati Uniti l’anno successivo. In parallelo alla “svolta asiatica” in funzione anti-cinese, Obama aveva in seguito riabilitato i reparti speciali delle forze armate indonesiane, ristabilendo la cooperazione dopo avere giudicato sufficienti i progressi fatti dal governo democratico di Giakarta.

Fu infine Trump a sdoganare definitivamente il genero di Suharto, presagendo con ogni probabilità il futuro ruolo presidenziale che lo attendeva. Nel 2020, infatti, il bando che gravava su Prabowo venne cancellato definitivamente e l’allora segretario alla Difesa, Mark Esper, accolse il suo omologo indonesiano al Pentagono. Lo scrupolo principale per gli USA non era più la democrazia e la condanna dei crimini contro l’umanità, ma il consolidamento dei rapporti con i leader – presenti e futuri – di quei paesi ritenuti in una posizione cruciale per collaborare nel contrasto alla minaccia cinese.