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Categoria: Esteri
di Agnese Licata

"Era inutile continuare a discutere sulla base delle cifre che erano sul tavolo". Probabilmente sarà questa frase, detta giovedì al ministro dell'Economia brasiliano Celso Amorim, a decretare il fallimento definitivo del Doha Round, il processo di negoziazione per la liberalizzazione degli scambi commerciali tra i 150 Stati aderenti al Wto (World Trade Organization). Come continua ad accadere ormai dal novembre del 2001, quando furono aperte le trattative multilaterali, anche questa volta la contrapposizione tra Paesi in via di sviluppo e nazioni occidentali è ¤iventata insormontabile. Da un lato, Brasile e India si sono mostrati irremovibili nel voler tutelare la propria economia e i propri cittadini da un libero mercato a senso unico, capace solo di concentrare ulteriormente la ricchezza mondiale nelle mani di pochi governi. Dall'altro, Stati Uniti e Unione europea hanno continuato a pretendere l?abbattimento di tutte le barriere commerciali a difesa dei prodotti industriali, senza concedere agli altri paesi una contropartita adeguata e realmente vantaggiosa. Si é chiuso così con Brasile e India che abbandonano il tavolo delle trattative, l'incontro di Potsdam (Germania), iniziato appena due giorni prima. Un incontro volutamente ridotto ai quattro stati che costituiscono il G4 - Brasile, India, Unione Europea, Stati Uniti - nella speranza che con meno interessi nazionali da mettere d'accordo sarebbe stato più facile rilanciare i negoziati. E invece, è ¡ndata in scena la replica di quanto accaduto già un anno fa a Ginevra, quando il direttore generale del Wto, Pascal Lamy, era stato costretto a sospendere il Doha Round.

Oggi come allora, il vero nodo del contendere è rappresentato dai sussidi all'agricoltura, elargiti proprio dai governi che più affannano a tessere le lodi del libero mercato. Nei Paesi in via di sviluppo (Pvs) la maggior parte della popolazione sopravvive solo grazie a quello che guadagna coltivando la terra e allevando bestiame. Per questi stati poter ampliare l'esportazione di prodotti agricoli significherebbe non solo aumentare in modo non indifferente la propria ricchezza nazionale, ma soprattutto garantire un lavoro, una speranza a quei milioni di disperati che, giorno dopo giorno, abbandonano le campagne, finendo a vivere di stenti nelle bidonville che circondano le città. Ma come possono competere il latte, la carne, il riso di un paese africano, sudamericano o asiatico con quelli di Stati Uniti, Francia, Italia, dove ogni mucca gode di un sussidio giornaliero superiore a un dollaro?

L'esempio classico è quello del cotone. Solo ed esclusivamente grazie agli aiuti governativi (dell'ordine di miliardi di dollari), gli Stati Uniti sono riusciti a diventare il principale esportatore di cotone, nonostante i prezzi di produzione siano molto più alti rispetto a quelli africani. Non c'è concorrenza che tenga se una delle due parti può permettersi di vendere a un prezzo più basso, potendo contare su un ricco aiuto statale. Quello che i Pvs chiedono da anni è proprio una forte riduzione, se non l'eliminazione, di questi sussidi. A Potsdam, Brasile e India hanno chiesto agli Stati Uniti l'impegno di ridurli del 70% e all'Ue di fare quasi altrettanto (-60%). Solo a queste condizioni si sarebbe poi potuto parlare di maggiore apertura dei propri mercati ai prodotti industriali provenienti da Occidente. Susan Schwab, rappresentante americana al G4, si è dichiarata disposta a ridurre il tetto dei sussidi da 22 miliardi di dollari a 17. Peccato però che quest'anno, grazie all'aumento dei prezzi delle materie prima agricole, gli aiuti statali siano stati ben più bassi: 12 miliardi. Bruxelles, da parte sua, ha proposto di scendere del 50%. Ma anche qui c'è µno specchietto per le allodole a incombere. L'Ue, infatti, si riserverebbe di finanziare liberamente alcuni prodotti di base come la carne di vitello.

Così, di fronte a chi ha l'arroganza neocolonialista di dire "voi aprite i vostri mercati senza fare storie, noi vi concederemo qualcosa, se e come vorremo", il ministro indiano e quello brasiliano hanno deciso di chiudere una partita che rischiava solo di danneggiarli. Del resto, a dargli ragione, c'è anche Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia nonché vice-presidente e direttore economico della Banca Mondiale dal 1997 al 2000. "Le nazioni in via di sviluppo" - scriveva il 10 agosto del 2006, in un suo intervento sul quotidiano inglese The Guardian - non possono, e non dovrebbero, aprire totalmente i propri mercati ai prodotti agricoli americani se i sussidi statunitensi non vengono eliminati. Per competere, questi paesi sarebbero costretti a concedere aiuti ai propri agricoltori, deviando i pochi fondi da settori necessari come istruzione, sanità e infrastrutture".

C'è poi da farsi un'altra domanda. Che effetto avrebbe, su economie spesso molto fragili, il libero ingresso di prodotti industriali provenienti dalle nazioni più ricche? Come lo stesso Stiglitz sottolinea nel suo libro "La globalizzazione e i suoi oppositori" (Einaudi), il rischio è di far chiudere quelle poche industrie esistenti, schiacciate da una concorrenza del tutto impari, con il conseguente aumento della disoccupazione, della povertà e dell'instabilità sociale. E se per i liberisti più integralisti (solo se a casa altrui, ovviamente), il libero mercato è la manna dal cielo, una sorta di divinità intoccabile sempre e comunque, in realtà aprire un'economia non ancora matura alla concorrenza può causarne il definitivo collasso. E allora, se Nicolas Sarkozy, presidente di uno dei sette stati più avanzati del mondo, ritiene che l'economia francese (e in particolare l'agricoltura) non sia ancora pronta ad affrontare le tempestose acque della libera concorrenza internazionale, come si può pretendere che lo siano il Bolivia, la Sierra Leone, la Thailandia, il Bangladesh?