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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

Sono ormai due mesi che i militanti di Fatah al-Islam sono asserragliati a Nahr al-Bared, uno dei 12 campi profughi palestinesi che sorge a nord di Tripoli e che negli ultimi tempi è diventato base e centro di addestramento del gruppo radicale guidato da Shaker al-Absi. I sanguinosi scontri di Nahr al-Bared, che per 32 giorni hanno visto di fronte il gruppo integralista sunnita e l’esercito di Beirut, hanno lasciato sul terreno circa 150 persone, metà delle quali militari libanesi. Una lunga battaglia che è per ora non ha visto ne vinti ne vincitori ma che ha mortificato ancora di più le già precarie condizioni dei 40 mila profughi che nel campo, civili senza Patria che si sono trovati improvvisamente ostaggi di una guerra non loro. Ad annunciare il cessate il fuoco unilaterale sono stati gli ultimi sopravvissuti di Fatah al-Islam, protetti da un accordo del 1969 che impedisce a qualsiasi non palestinese di entrare all’interno dei campi profughi libanesi. La rivolta, iniziata il 19 maggio scorso dopo che le forze di sicurezza avevano tentato di arrestare quattro militanti accusati di aver commesso una rapina da 125 mila dollari in una banca della famiglia Hariri, nella località di Amyoun, è cresciuta di giorno in giorno e si è estesa al vicino campo di Beddawi, alle colline di Qalemun, al quartiere residenziale Abu Samra di Tripoli, dove i miliziani radicali hanno rivendicato un attentato che ha causato almeno due morti, e al campo profughi di Ain al Hilweh, nei pressi di Sidone.

Il 21 giugno la svolta: la differenza delle forze in campo e l’isolamento politico che si è venuto a creare intorno al gruppo di al-Absi sono stati i fattori che hanno determinato la proclamazione del cessate il fuoco unilaterale. L’assedio è comunque continuato e le notizie di stampa parlano di bombardamenti contro le ultime postazioni del gruppo ispirato ad al-Qaeda.

La nascita e la storia di Fatah al-Islam, il gruppo terroristico che si è prepotentemente inserito nella scena politica mediorientale, sono legate alla vita e alle gesta del suo fondatore, Shaker al-Absi. Di lui parla Sami Haddad che, in un articolo e pubblicato dal quotidiano libanese on-line Ya Libnan, racconta le rivelazioni del fratello Abdel Razzak el-Absi, medico in Amman.

Nato nel 1955 nel campo profughi di Ain Sultan, nei pressi della città Ariha, territorio palestinese della West Bank, nel 1967 Shaker emigra con la famiglia in Giordania per sfuggire all’occupazione israeliane avvenuta in seguito alla Guerra dei sei giorni. Visti gli eccellenti profitti scolastici, si trasferisce in Tunisia dove inizia gli studi di medicina, che però lascia per dedicarsi a quegli ideali politici che lo avevano accompagnato sia dall’adolescenza: il sogno di una Palestina libera ed indipendente.

Sempre stando alle dichiarazioni del fratello, si arruola così nell’organizzazione di Yasser Arafat, Fatah, che lo invia in Libia per un corso di pilotaggio. Ottenuto il brevetto militare e l’abilitazione agli aerei russi Mig-23, partecipa all’invasione libica del Ciad settentrionale che anticipa la guerra per la Striscia di Aozou. Nel 1980 si reca a Cuba, dove il fratello si sta laureando in medicina, e dopo qualche mese raggiunge il Nicaragua. Dopo alcuni mesi rientra in Medio oriente e, nel 1982, durante l’invasione israeliana del Libano, Shaker entra nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e combatte nella valle della Bekaa.

Al termine della guerra, riparte per la Libia da dove poi raggiunge lo Yemen e la Siria, sua ultima destinazione. Qui le autorità siriane lo condannano a tre anni di detenzione per cospirazione contro il regime di Damasco e appartenenza ad una organizzazione estremista. Mentre si trova in carcere, la giustizia giordana lo condanna a morte, in contumacia, per aver partecipato all’organizzazione dell’omicidio di Lawrence Folly, ambasciatore americano ad Amman ucciso con sette colpi di arma da fuoco il 28 ottobre 2002.

Tra i sospettati compaiono anche i nomi di Abu Moussab al-Zarqawi, leader di al-Qaeda in Iraq e mandante dell’assassinio, e di Salem Sa’ad Salem bin Saweed, giustiziato perché ritenuto esecutore materiale del crimine. Nel 2005, terminata la pena in Siria, Shaker si sposta nel campo profughi di Shatila, nella periferia di Beirut, dove entra a far parte di Fatah el-Intifada, gruppo estremista palestinese guidato da Abu Musa, colonnello dell’OLP che negli anni 80 era stato a capo di una rivolta contro Yasser Arafat, e connesso con i servizi segreti siriani.

Dopo alcuni mesi, Shaker, raccolta intorno a se l’ala più radicale e oltranzista del movimento, fonda Fatah al-Islam. Con circa 100 uomini si trasferisce nel campo profughi di Nahr el-Bared, sua nuova base operativa e centro di addestramento per le nuove reclute della Jihad.

In un’intervista rilasciata nel marzo 2007 a Souad Mekhennet e Michael Moss, giornalisti del New York Times, Shaker al-Absi ha espresso il suo pieno sostegno ad al-Qaeda ed ha ribadito il suo odio nei confronti degli americani e degli israeliani, nemici giurati dell’Islam. Un comportamento che il fratello, Abdel Razzak, giustifica con la depressione e la disperazione che avrebbero colpito Shaker sin dall’adolescenza e lo avrebbero condotto tra le braccia dell’estremismo islamista. Sarebbero stati quindi 60 anni di occupazione israeliana e la perdita di ogni speranza nella lotta per l’affermazione dell’identità palestinese a trasformarlo in uno spietato terrorista; una giustificazione dettata dal vincolo di sangue che non legittima però le azioni commesse da chi ha scelto come soluzione l’estremismo islamista.

Narrando la storia del fratello, Abdel Razzak ha dimenticato di citare le ultime azioni commesse da Shaker: il duplice attentato del 13 febbraio scorso avvenuto nella città di Ayn Alaq, provincia settentrionale Metn, a 30 chilometri da Beirut, nel quale sono stati colpiti due autobus di pendolari causando la morte di tre libanesi e ferendone altri 20; la morte di decine di soldati dell’esercito di Beirut; le numerose rapine in banca, ultima delle quali ha scatenato l’inferno di Nahr el Bared; il voltafaccia al Libano, un Paese che ha da sempre ospitato i palestinesi; il sospetto omicidio dell’ex-ministro dell’Industria Pierre Gemayel; le minacce rivolte contro i Caschi Blu e il possibile coinvolgimento nella morte di sei militari del contingente spagnolo di Unifil, periti in un attentato avvenuto nelle vicinanze di Sahel el Derdara, città del Libano meridionale che sorge nella valle di Khiam, area sotto il controllo Onu.

Il giornalista libanese Sami Haddad ha definito il comportamento di Shaker al-Absi come l’azione di una mente malata, che scarica i propri fallimenti sugli altri e mira a saziare le sue diaboliche ambizioni. Certamente, dietro la kefiah e i proclami che inneggiano alla guerra santa, si cela un altro Shaker. Da quando ha fondato Fatah al-Islam si è circondato di siriani, sauditi, iracheni, turchi, ceceni, yemeniti, pronti a combattere ovunque. Durante gli scontri, Shahin Shahin, portavoce dell’organizzazione, aveva dichiarato che era intenzione del gruppo estendere la rivolta a tutta la “grande Siria”, il territorio che comprende il Libano, Israele, la Giordania e la stessa Siria. Un proclama che lasciava intravedere un progetto più ampio, sostenuto certamente dall’esterno e mirato a portare la Jihad nel cuore del Medio Oriente, ma che non escludeva il coinvolgimento di forze di potere interne allo stesso Libano.

In un articolo pubblicato dal New Yorker magazine del 3 marzo scorso, Seymour M. Hersh aveva ipotizzato che Fatah al-Islam fosse armato e finanziato dal governo libanese del premier Fouad Sinora, che avrebbe assoldato un esercito per creare un’area di tensione che allontanasse il pericolo Hezbollah. Un’ipotesi da prendere in considerazione, avvalorata anche dalle dichiarazioni di un’ex-agente dell’MI6, Alastair Crooke, che ha coinvolto altri personaggi della politica libanese fino a raggiungere il clan Hariri. Ma é contestata da Michael Young, opinionista del Daily Star di Beirut, che appare più propenso per la pista siriana, (molto più comoda politicamente) e che definisce la natura di Shaker al-Absi, quale quella di un mercenario senza scrupoli che si è gettato nella mercificazione della causa palestinese. Ma anche questa tesi appare troppo semplice.