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Categoria: Esteri
di Luca Mazzucato


Il clan neocon di George Bush prepara un addio al potere letteralmente col botto. Quella che sarà probabilmente l'ultima mossa dell'amministrazione americana in Medioriente segnerà il futuro della regione per i prossimi anni, all'insegna della dottrina del “caos creativo”, che sta dando ottimi frutti (per Bush e alleati) in Iraq e in Palestina. Il presidente americano chiederà al Congresso un finanziamento a pioggia di circa sessanta miliardi di dollari in armamenti per Israele, Egitto, Arabia Saudita e i regimi filo-americani nel Golfo. Il pacchetto include bombe a guida satellitare, caccia ultramoderni e navi da guerra. Il motivo ufficiale è accerchiare la crescente potenza iraniana rafforzando gli alleati sunniti. Pesantemente contrarie le reazioni della Germania (che si oppone anche allo scudo antimissile di Bush in Europa orientale) ma soprattutto di una coalizione bipartisan del Congresso, che minaccia battaglia in aula. Dopo l'appoggio al progetto nucleare indiano, che sta cambiando l'assetto geopolitico asiatico, Bush decide di lasciare il segno anche in Medioriente. Ad un anno dalle elezioni presidenziali, che porteranno probabilmente ad un graduale disimpegno dall'Iraq, l'amministrazione più guerrafondaia della storia guarda lontano e cerca di plasmare il nuovo scenario regionale nei prossimi decenni.

La strategia è quella di ricreare una sorta di guerra fredda mediorientale, contrapponendo all'asse del male sciita Iran-Siria-Hizbullah una alleanza tra Israele e i regimi filo-americani sunniti del Golfo. La parte cruciale del progetto riguarda il finanziameno di venti miliardi di dollari in armamenti di ultima generazione per l'Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo Persico. In questo modo, il regime saudita riuscirà a colmare il graduale vuoto di potere che seguirà al ritiro americano dall'Iraq e si occuperà in prima persona di contrastare la crescenta egemonia iraniana nell'area. Le aspirazioni iraniane di potenza regionale sono infatti la prima preoccupazione per i sauditi e i loro alleati e, anche se le frizioni per ora sono circoscritte alla cruenta guerra civile in Iraq, con il ritiro americano potrebbero estendersi a tutto il Golfo e fino in Libano.

Per discutere i dettagli della proposta, il Segretario di Stato Rice e il Ministro della Difesa Gates si sono imbarcati in un tour regionale (la prima volta di questa inedita accoppiata), affermando infatti che “questo sforzo americano rafforzerà le forze moderate e costruirà una strategia più ampia di contenimento di al-Qaeda, Hizbullah, Siria e Iran.” La reazione europea alla gigantesca operazione militare è stata affidata al ministro degli esteri tedesco Steinmeier. Questi ha stigmatizzato la deplorevole corsa al riarmo, riaffermando la necessità di aprire un fronte diplomatico, forse temendo che un attacco all'Iran possa mettere in crisi i forti legami commerciali tra l'UE e il regime persiano. Questa posizione tedesca va di pari passo con l'opposizione al progetto americano di uno scudo antimissile in funzione anti-russa nell'europa orientale, che si annuncia come una riedizione della cortina di ferro e minaccia a sua volta gli stretti rapporti economici tra la locomotiva dell'UE e il regime di Putin.

L'annunciato aiuto massiccio al regime saudita sta creando non pochi problemi a Bush anche in patria. Un fronte bipartisan di deputati democratici e repubblicani ha dichiarato battaglia. Non è la prima volta che gli affari spregiudicati del clan Bush creano problemi all'amministrazione: l'anno scorso fece scandalo infatti la decisione di dare in gestione le autorità portuali statunitensi ad una società araba di Dubai. Molti deputati si opposero citando la priorità della sicurezza nazionale sui profitti privati e, nonostante il forte pressing di Bush, la proposta fu infine respinta al Congresso. Questa volta, l'obiezione mossa a Bush è l'atteggiamento ambiguo del regime saudita nei confronti del terrorismo internazionale, se non altro per l'origine e gli appoggi forniti dai sauditi ad al-Qaeda: il fatto che diciotto su diciannove dirottatori dell'undici settembre fossero proprio cittadini sauditi non è stato ancora dimenticato negli USA. Il gruppo di deputati dissidenti presenterà un disegno di legge per bloccare qualsiasi vendita di armi all'Arabia Saudita, vincolando futuri finanziamenti all'esplicito riconoscimento da parte saudita degli interessi americani nell'area.

Per superare l'ennesima possibile empasse al Congresso, Bush ha un asso nella manica: l'aumento di un quinto degli aiuti militari americani ad Israele, che lieviterebbero alla formidabile cifra di trenta miliardi di dollari in dieci anni. Legando in un unico provvedimento gli aiuti israeliani e quelli sauditi, Bush dovrebbe spuntarla ancora una volta, con la tacita minaccia di spostare lo scontro politico sul piano dell'antisemitismo, in caso di bocciatura della legge. Il premier israeliano Olmert, in grave difficoltà in patria a causa del rapporto sui fallimenti della guerra in Libano, ringrazia e si prepara ad incassare l'aumento. L'unica voce contraria nel panorama israeliano è a sorpresa quella di Netanyahu, che ha ribadito al contrario la priorità esistenziale per Israele di sganciarsi gradualmente dal controllo americano, per raggiungere in prospettiva l'autosufficienza militare, nel caso in cui gli interessi americani si spostino in futuro su altri fronti.

Mentre Condoleezza Rice afferma che il progetto “rafforzerà la pace e la stabilità in Medioriente, assicurando libertà e indipendenza al Libano”, il premier libanese Siniora, pur a capo di una coalizione filo-americana, si è detto esterreffato dall'aumento di aiuti americani a Israele, notando che questo incoraggerà ancor di più nello stato ebraico la falsa illusione che la sua sicurezza risieda esclusivamente nella superiorità militare, a scapito di un'uscita diplomatica dal conflitto. Siniora ha aggiunto che, invece di finanziare il riarmo, gli Stati Uniti dovrebbero usare quei soldi per ricostruire la regione, devastata da decenni di guerre continue. Ma la causa di tale contrarietà potrebbe essere legata anche al trasferimento di armi all'Arabia Saudita. Il Libano, infatti, ha visto recentemente aumentare le attività di fazioni jihadiste internazionali, che utilizzano canali sauditi per l'approvvigionamento di armi e uomini.

Le tensioni interne sono recentemente deflagrate negli scontri nel campo profughi di Nahr al Bared tra esercito libanese e gruppi di combattenti internazionali, che si sono poi estese a tutto il Libano. Siniora teme dunque che un'escalation nell'area mediorientale porterebbe, come già successo in passato, alla drammatica ripresa della guerra civile nel paese dei cedri, teatro della guerra sporca tra Iran, Siria e Hizbullah da un lato e una inedita alleanza di israeliani, americani e jihadisti sunniti dall'altra.

Un caso a parte rappresenta la commessa di tredici miliardi di dollari in aiuti promessi all'Egitto. Da sempre alleato americano, il regime laico di Mubarak ricopre una posizione strategica su diversi fronti. In primo luogo, è un baluardo contro l'avanzata del radicalismo islamico sunnita, in questo caso rappresentato dai Fratelli Musulmani, di cui il movimento palestinese di Hamas è un'emanazione. Rafforzare Mubarak dunque rientra nel piano di accerchiamento di Hamas in Palestina. D'altra parte, non è da escludere che Bush guardi lontano, interpretando i recenti episodi di guerra tra Somalia ed Etiopia e in Darfur come preludio di un allargamento del conflitto nell'intera regione. In questo caso, l'Egitto rafforzerebbe la sua posizione di garante degli interessi americani nell'area.

La contraddizione dell'aiuto ai regimi sunniti in funzione anti-iraniana da una parte e la repressione dei gruppi sunniti in Egitto e Palestina dall'altra è in realtà solo apparente. La strategia dell'amministrazione Bush in questo caso vorrebbe essere pragmatica, appoggiando di volta in volta gruppi diversi in diversi contesti. Se in Iraq la guerra civile tra sunniti e sciiti rende più agevole il controllo delle risorse del paese da parte dell'amministrazione, che altrimenti si troverebbe a combattere un fronte iracheno unito contro il comune nemico americano, sul contrasto al regime di Teheran Bush ha deciso di passare la mano in futuro direttamente all'altra potenzia regionale, l'Arabia Saudita. L'esperienza irachena è stata adattata poi con successo alla situazione palestinese, sfruttando l'esistenza della fazione palestinese laica di Fatah, in funzione questa volta anti-islamica. Prova ne sia il continuo afflusso di armi, fornite da USA e Israele a Fatah, e persino l'addestramento degli uomini della sicurezza palestinese da parte dei consiglieri militari americani, secondo schemi ampiamente testati in America Latina.

La guerra al movimento sunnita di Hamas non è in contraddizione con l'aiuto ai regimi sunniti in funzione anti-iraniana. Per l'Arabia Saudita il conflitto palestinese in questo momento è più un problema che una risorsa, come dimostra il recente avvicinamento diplomatico tra i sauditi e Israele. I regimi filo-americani all'interno della Lega Araba preferirebbero firmare una pace separata con Israele anche in assenza di una soluzione definitiva della questione palestinese. Tuttavia, è chiaro che questa ennesima applicazione della dottrina del “caos creativo” potrebbe portare a risultati del tutto imprevedibili: aumentando l'instabilità della regione qualsiasi attrito locale potrebbe portare a nuovi conflitti su larga scala. La guerra della scorsa estate in Libano ne è infatti l'esempio più recente. Dal momento che anche Siria e Iran si stanno a loro volta riarmando, aiutati dal Cremlino, è difficile prevedere cosa succederà nel prossimo futuro.