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Categoria: Esteri
di mazzetta

L’esplosione della protesta popolare in Myanmar fornisce l’occasione di mettere a fuoco l’enorme trasformazione che ha colpito il dibattito italiano sui temi di politica estera negli ultimi anni. Fino a pochi anni la provvidenziale Guerra Fredda rendeva semplice il commento degli eventi, ovunque si verificassero. I cattivi erano facilmente identificati nel fronte avverso, per gli uni i regimi “comunisti”, per gli altri i paesi “capitalisti”; fine del discorso. Ogni analisi partiva dal preventivo schierarsi in uno o nell’altro campo per passare poi a dare la stura ai luoghi comuni e alla propaganda. Dal crollo del muro di Berlino questa semplicistica riduzione del mondo è come evaporata, lasciando più di un commentatore professionale con le braghe calate. Molti hanno fatto finta di nulla, continuando a praticare il vecchio modello, anche se ormai poco adatto ai tempi. Abbracciare le logiche del potere porta vantaggi e oggi che non c’è più nessun altro potere alle viste, tanti hanno ceduto e si sono arruolati nella guerra dell’Occidente, senza nemmeno sapere chi o cosa si sarebbe combattuto. La confusione però regna sovrana, i nemici di un tempo possono essere alleati di oggi, ma il vero problema è che si fa fatica a trovare “nemici” credibili per un Occidente sempre più nudo di fronte alle proprie responsabilità, alle quali si sono aggiunti l’imminente disastro climatico e il problemuccio delle risorse in esaurimento. Gli “islamici” sono sembrati per un po’ la soluzione, ma ormai è chiaro che non potranno mai essere un nemico vero come l’ex Unione Sovietica. Ecco allora che alcuni da tempo la menano con la Cina, abbastanza robusta da interpretare il ruolo di minaccia, alla quale attribuiscono ogni genere di responsabilità tranne quelle che porta davvero, visto che queste le condivide con i gemelli (per molti versi) statunitensi.

La grossa confusione della classe parlante italiana porta ad effetti paradossali, ci sono quelli che inneggiano alla dittatura birmana, vista come resistenza agli USA, e quelli che inneggiano ai monaci e al cambio di regime, accusato di essere un fantoccio cinese. Gli uni e gli altri sembrano ignorare completamente i dati disponibili, che dicono come la giunta birmana sia in ottimi rapporti con l’Occidente, come con la Cina e con l’India, con quest’ultima che infatti ha siglato un mega accordo petrolifero a Yangoon proprio mentre i soldati bastonavano i monaci. La Birmania così com’è va bene a tutta l’economia globalizzata, i manifestanti possono morire di vecchiaia aspettando aiuti dalla comunità internazionale; al massimo si ripeterà la sceneggiata dell’embargo e di quelli che poi l’aggirano mentre condannano la brutalità dei generali.

Legata a stereotipi ormai inservibili, la classe parlante italiana quando viene a discutere del mondo si trova spiazzata. Un altro bell’esempio è quello che sta succedendo in Africa, dove la competizione di interessi occidentali ha portato alla totale paralisi informativa. Non si hanno più notizie dell’ex colonia di Somalia, nella quale un gruppo di delinquenti sta cercando di ottenere il controllo del paese spalleggiato dall’esercito di una dittatura peggiore di quella birmana e dagli USA. Nessuno sembra interessato alle storie che arrivano da Mogadiscio, molto più splatter di quelle provenienti da Yangoon; nemmeno la disputa tra il governo transitorio somalo che affama i bambini-profughi perché “terroristi” e l’Onu ha destato attenzione. I morti si contano a migliaia, i profughi sono cento volte tanti, etiopi e signori della guerra somali si comportano molto peggio della giunta birmana (che non ha ancora bombardato interi quartieri), ma nessuno sembra interessato a denunciare questi massacri.

Non si parla di Somalia, ma non si parla nemmeno del resto del continente africano; alcuni pontificano sul Darfur tanto malamente che una missione europea in Ciad e Repubblica Centrafricana viene spacciata come intervento di aiuto ai profughi sudanesi, mentre si tratta di ben altro. I commentatori schierati sulla sponda di Washington continuano ad attaccare il governo sudanese, senza rendersi conto che la ribellione in Darfur è ormai frammentata in più di dieci fazioni, ciascuna dotata di sponsor occidentale o nordafricano. Un’altra cosa della quale ci si rende poco conto è che il governo di Karthoum è perfettamente allineato all’occidente da un paio d’anni; i suoi servizi segreti hanno addirittura ricevuto il plauso della CIA per il contributo alla War on Terror.

C’è stata una grossa discussione in sede europea sull’opportunità di inviare un contingente UE in Ciad e Repubblica Centrafricana, ma in Italia non se n’è accorto nessuno. La Germania ed altri paesi non erano d’accordo a mettere i bollini di UE ed ONU ad una missione militare che sarà soprattutto francese, nei due paesi nei quali proprio la Francia è intervenuta recentemente per salvare i rispettivi dittatori dalla furia dei loro popoli. Una Birmania alla rovescia, dove il buon occidente interviene a salvare il despota. La missione UE servirebbe solo a dare patente di legittimità internazionale alle truppe francesi già impiegate (illegalmente) sul campo, non certo a proteggere i profughi dei due paesi.

Ebbene sì, in Ciad ci sono più profughi in fuga dalle truppe del Ciad che abitanti del Darfur in fuga dai janjaweed; e ancora di più sono i profughi che provengono dalla Repubblica Centrafricana, dove l’esercito presidenziale rinforzato da mercenari ha praticato una spietata pulizia etnica in tutto il Nord-Est del paese. Tutto verificato dall’ONU, tutto facile da sapere, ma molti preferiscono ridurre la questione alla rappresentazione di un cattivo governo “islamico”, quello del Sudan, contro i poveri profughi. Peccato che da un paio d’anni il governo sudanese sia compartecipato dai partiti del Sud cristiano, ma anche di questo non si è accorto nessuno. Anche in questo caso c’è stato chi ha tirato in ballo la Cina, che in Sudan compra il petrolio e paga in infrastrutture ed armi, dimenticando gli identici commerci occidentali: singolare strabismo.

La notizia africana della settimana è l’annuncio da parte americana della costituzione dell’AFRICOM, che sarebbe un comando americano unificato per le operazioni in Africa. Dato che l’Africa è diventata il principale fornitore di petrolio per gli Stati Uniti, alla Casa Bianca pensano bene di farcire il continente con una mezza dozzina di basi a guardia della situazione. Temendo, anche qui, l’affermazione commerciale dei cinesi, Washington vorrebbe rispondere fortificando la propria presenza a mano armata. La cosa non è gradita in Africa, dove solo il governo della Liberia si è detto favorevole. Tra le altre opinioni la più benevola è quella del governo sudafricano che ha detto che l’AFRICOM potrebbe anche servire, ma che è bene che rimanga dove l’hanno inaugurato: a Stoccarda.

Gli Stati Uniti si sono affrettati a rassicurare, per bocca del Dipartimento di Stato, che AFRICOM non servirà a dare la caccia ai terroristi in Africa, non servirà per proteggere le risorse e non servirà a rafforzare la diplomazia americana nell’area; servirà a rendere più efficace gli aiuti umanitari e ad aiutare lo sviluppo dei paesi africani. Purtroppo per loro non ci ha creduto nessun politico africano. Il primo lotto di “aiuti” dovrebbe essere rappresentato da una base permanente in grado di ospitare 25.000 soldati americani sul suolo africano; a titolo d’esempio il “dispositivo Sparviero” schierato dalla Francia a distruggere i ribelli ciadiani e centrafricani conta solo 1200 uomini.

Così, mentre l’Occidente atlantista sceglie la ri-colonizzazione militare del continente africano, perché vede in pericolo quella squisitamente economica, minacciata dall’avanzare della concorrenza commerciale di Cina e India sul continente, nel nostro paese si dibatte su chi e come potrebbe “aiutare” i poveri birmani contro la feroce dittatura alimentata dai nostri stessi leader e uomini d’affari. Si discute del nulla e non si vede che è già cominciata una nuova fase di conflitto coloniale tra paesi occidentali ed orientali, potenze locali e finanza globalizzata per la spartizione di risorse sempre più rarefatte.

In fondo è comprensibile, legioni di giornalisti addestrati a cavare il più possibile da episodi di cronaca, come nel caso di Garlasco, sono inevitabilmente inadeguati ad affrontare gli scenari internazionali, nei quali le vittime spariscono e si sentono solo le ragioni dei carnefici e delle loro impellenti necessità. In questi casi, stare dalla parte delle vittime, dar loro voce, non paga; si fa solo se si pensa che possa danneggiare un rivale politico. Altrimenti, perché affaticarsi per nulla?