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Categoria: Esteri
di Giuseppe Zaccagni

Il Dalai Lama (al secolo Tenzin Gyatso, anni 72, quattordicesimo capo assoluto del buddismo tibetano, chiamato dai suoi fedeli "Santo Signore", "Gloria Gentile", "Difensore della Fede", "Oceano di Saggezza") è a Milano. E’ arrivato da Delhi e il suo programma (in compagnia dell’amica Laura Gancia e del capo del Tibet Bureau Kelsang Gyaltsen) prevede varie tappe italiane. L’obiettivo di questa sua nuova incursione - a partire da quel 1959, quando rifiutò di collaborare con il governo di Pechino - è sempre lo stesso: una lotta decisa contro la Repubblica Popolare Cinese nel nome dell’indipendenza del Tibet. Una posizione, questa, che caratterizza il suo esilio in India dove ha praticamente formato un governo ombra che sviluppa, oltre ad una missione religiosa sul piano mondiale, anche un ruolo politico e diplomatico. Tenzin Gyatso arriva quindi nel nostro Paese con un obiettivo ben preciso che non può che suscitare reazioni di prudente scetticismo: porre all’attenzione del mondo occidentale la questione del rapporto tra Pechino e Lhasa, capitale tibetana della regione “ribelle”. Arriva anche con alle spalle una ben precisa ed orchestrata campagna pubblicitaria segnata da libri e film in puro stile hollywoodiano, da articoli ed interviste nelle quali ricorda che se la sua morte: “Dovesse intervenire quando siamo rifugiati, allora, logicamente, la mia reincarnazione sarà fatta al di fuori del Tibet''. E qui riporta d’attualità quelle posizioni politico-religiose che fanno del Tibet il nervo scoperto della Cina. E nella sua attività di nemico di quel potere che guida Pechino dimentica volutamente che il Tibet è parte integrante della Rpc. E che, di conseguenza, non esiste una questione nazionale. Il problema del rapporto con Lhasa, invece, deve essere inserito in una questione ben più generale che è quella del rispetto o meno della libertà di culto e dei diritti umani nella stessa Rpc vista nel suo insieme. Ma è chiaro che il Tibet del Dalai Lama, in questo contesto, dovrebbe rinunciare ad ogni attività separatista riconoscendo l’integrità territoriale della Cina e prefigurando una nuova stagione geopolitica.

Accade, invece, che la propaganda delle forze tibetane che si oppongono a Pechino insiste sulla disinformazione e su un completo attacco caratterizzato da revisioni storiche di portata epocale. Ma è noto che la sovranità cinese sul Tibet non è venuta con la cosiddetta invasione. Vi sono alle spalle secoli di storia che ci ricordano che il Tibet era territorio cinese dal tempo in cui in Europa non esistevano ancora gli Stati nazionali. E che a mettere in discussione la sovranità cinese sul Tibet fu l’imperialismo britannico, che sviluppò un tentativo di distruggere la sovranità cinese sul Tibet per giungere allo “smantellamento della Cina”.

E va anche ricordato che prima della guerra fredda Washington riconosceva il Tibet come territorio cinese. Fu solo con l’avvento al potere del Partito Comunista Cinese che gli americani avviarono un processo di manipolazione storica. A testimonianza di questi fattic’è una lettera del 13 gennaio 1947 al Presidente americano Truman da parte di Gorge R. Merrel, incaricato d’affari Usa a Nuova Dheli. La lettera riguardava la “inestimabile importanza strategica” del Tibet e così recitava: “Il Tibet può essere considerato come un bastione contro l’espansione del comunismo in Asia o almeno come un’isola di conservatorismo in un mare di sconvolgimenti politici”. E di conseguenza il separatismo tibetano - soffiando sul fuoco dei fermenti etnici - si è andato trasformando in uno strumento dell’imperialismo americano e come strumento degli interessi geopolitici degli Usa. E non è più un segreto che agenti speciali di origine tibetana furono addestrati negli Usa e poi inviati nelle regioni contestate. Ma gli Usa non riuscirono, in quei tempi, a vincere la loro battaglia diretta e così la Cia (servendosi anche della macchina propagandistica del cinema hollywoodiano) avviò una campagna mediatica a livello mondiale con l’obiettivo di destabilizzare il Tibet per colpire Pechino.

Ed oggi il Dalai Lama, forte dell’appoggio americano, cerca di annullare a livello propagandistico tutto quanto è fatto da Pechino in direzione del Tibet. La realtà è che oggi i tibetani godono di diritti prima sconosciuti, come quelli relativi al miglioramento del tenore di vita con un conseguente aggancio anche al mondo che li circonda. La regione tibetana, oltre ad avere il bilinguismo con prima lingua il tibetano, vede garantiti altri diritti nazionali quali la preferenza a favore dei tibetani e delle altre minoranze nazionali per quanto riguarda l’ammissione all’università, la carriera pubblica, ecc. Tutto questo avviene mentre il Dalai Lama si batte per la creazione di un Grande Tibet, che dovrebbe includere non solo il territorio del Tibet politico, ma anche aree tibetane nella Cina occidentale, in larghissima parte perse dal Tibet già nel diciottesimo secolo.

In pratica il Dalai Lama diffonde idee nazionaliste in chiave anticinese sperando in una disgregazione della Rpc come avvenuto con l’Unione Sovietica. Ora, mentre il braccio di ferro Lasha-Pechino continua, si registrano alcuni passi distensivi che fanno ben sperare. Sembra che gli attacchi alla cultura religiosa dei tibetani e al buddismo non siano più una priorità nell’agenda del governo cinese. “La prosperità socioeconomica proveniente dalla Cina non sterminerà la cultura e l’identità religiosa tibetana”, ha scritto recentemente il mensile nepalese Himal.

Non solo, ma si va sempre più delineando un piano di sviluppo del Tibet che ha come struttura portante quello relativo a far avanzare il progresso soprattutto in quei centri urbani nati lungo le strade e le reti ferroviarie costruite nelle regioni di Lhasa, Shigatse e Chamdo. Le zone rurali isolate del Tibet sono, al contrario, rimaste congelate in un limbo che, pur privandole dei vantaggi di un adeguato sviluppo economico, ha però permesso di preservare identità culturale e tradizioni religiose. Ora, comunque, le autorità di Pechino sembrano essersi rassegnate al fatto che nessun progetto potrà avanzare in Tibet senza il consenso e l’appoggio attivo delle istituzioni buddiste. C’è quindi un clima di maggiore collaborazione, perché ciò che le autorità temono di più è la capacità e la forza organizzativa dei gruppi religiosi e non il buddismo tibetano in sé.

In sintesi, c’è una certa inversione di tendenza da parte di Pechino che va vista come un tentativo di promuovere la millenaria cultura tibetana e non più di soffocarla. Tutto questo avviene mentre dall’Italia il Dalai Lama manda a dire alla dirigenza cinese che oggi il Tibet non chiede l’indipendenza, ma l’autonomia. E poi ricorda che "quando l'armata Rossa giunse in Tibet, si parlò di liberazione pacifica e perciò nel 1951 si fece un accordo di 17 punti che prevedeva due sistemi in un solo Paese. Nel 1959 le cose cambiarono, nel 1974 abbiamo pensato di chiedere l'autonomia, mentre dal 1979 abbiamo dovuto parlare direttamente con il governo centrale cinese: da quella data è rimasto un contatto che prevede un dialogo continuo, perché il Tibet rimanga sotto la costituzione della Repubblica Popolare Cinese". "Questa costituzione - sottolinea sempre il Dalai Lama - prevede l'autonomia per le diverse etnie, perciò noi abbiamo chiesto di avere un’autonomia significativa. Ora chiediamo alle autorità cinesi di mettere in pratica ciò che é previsto dalla loro stessa Costituzione". Buone intenzioni? Prove di un processo distensivo?

Pronta la risposta della Rpc. Pechino condanna tutti coloro che ricevono il "secessionista" Dalai Lama ma, almeno per il momento, non minaccia ritorsioni. Il tono è comunque duro. "Il Dalai Lama - dice il portavoce del ministero degli Esteri Qin Gang - non è solo una figura religiosa, ma è un esiliato politico impegnato in attività volte a frantumare la Cina. Il problema del Tibet non è un problema religioso o culturale ma un problema che coinvolge il territorio e l'integrità della Cina". In pratica Pechino torna a ribadire che l’esponente tibetano "non ha rinunciato all'indipendenza e all’intenzione di spaccare la Cina”. Ma il noto e secolare pragmatismo cinese potrebbe lasciare da parte i tratti più duri delle relazioni ed aprire strade nuove. Tanto più che proprio in questi giorni si registrano gesti distensivi anche sul piano dei rapporti tra Pechino e Vaticano. Con l’Osservatore Romano che annuncia un “nuovo corso nelle relazioni tra la Santa Sede ? Pechino dopo anni di attriti che, proprio sulle ordinazioni episcopali, sembravano insanabili”.