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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

E’ passato più di un anno dagli accordi di pace che hanno messo fine alla guerra civile; dieci anni di combattimenti che sono costati la vita a più di 13 mila civili e hanno causato la fuga di centinaia di migliaia di profughi. L’intesa, firmata il 21 novembre dello scorso anno a Kathmandu dal capo del governo di coalizione, Girija Prasad Koirala e dal leader del Partito comunista, Prachanda, ha rappresentato la fine della medioevale teocrazia del re Gyanendra e l’inizio di una nuova fase di democrazia e sicurezza. La ricostruzione del Paese è così nata intorno ad un governo di unità nazionale formato dai sette partiti della coalizione democratica (Spa) e dal Partito comunista nepalese; un esecutivo che deve gettare le basi per una nuova costituzione scritta da un parlamento scelto dal popolo nepalese attraverso libere elezioni. In realtà, nella terra che si dice sia stata visitata da Buddha, la democrazia non è mai stata di casa. Unificato nel settembre 1768, il Nepal è stato per lungo tempo teatro di violente repressioni ed è stato governato da regimi che hanno basato il loro potere su sistemi politici mono-partitici (il panchaayat), nepotistici e corrotti. I primo cambiamento è arrivato solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando grazie all’aiuto dell’India il movimento democratico è riuscito a rovesciare il regime militare della famiglia Rana instaurato nel 1846 dal generale Jang Bahadur. Nel 1972 la monarchia, tornata al potere, cede alle proteste popolari e da inizio ad un periodo di transizione democratico che però risentite del confronto politico interno tra moderati e i maoisti, della debolezza economica, della forte disoccupazione, dell’analfabetismo e della frammentazione etnico culturale.

Nel giugno 2001 arriva la violenta uccisione del re Birendra e il massacro di buona parte della famiglia reale, morti per mano del principe ereditario Dipendra che si pensa sia impazzito. In un Nepal insanguinato dalla lotta civile e dalla violenza sale al trono il fratello dello scomparso monarca, il principe Gyanendra, che deve affrontare problemi scottanti come le precarie condizioni finanziarie dello Stato e la ribellione maoista che in pochi anni ha già provocato più di 1500 morti. Ogni tentativo di distensione è vano e sul campo di battaglia le truppe governative affrontano i ribelli che intanto spostarono la loro campagna militare nel Nepal occidentale. Nel 2002 il re licenzia il primo ministro Sher Bahad Deuba e al suo posto nomina Lokendra Bahadur Chand, già capo del gabinetto in altre tre occasioni.

Nel gennaio 2003 il governo nepalese e i guerriglieri maoisti raggiungono un accordo e avviano un lungo e complesso negoziato di pace che però naufraga in un nulla di fatto. Il 7 maggio 2004 riprendono i combattimenti che durano fino al febbraio 2005, quando il re attua un colpo di stato e scioglie il governo, concentrando su di se tutte le cariche istituzionali dello Stato. Il 21 aprile 2006, in seguito ad una nuova ondata di proteste, Gyanendra riapre le trattative con la coalizione democratica e con i comunisti del movimento rivoluzionario d’ispirazione maoista; il 21 novembre 2006 viene raggiunto un accordo di pace che prevede la formazione di un governo di transizione e l’elezione di un'Assemblea Costituente.

Dopo vari ritardi e dopo una crisi di governo dovuta al mancato accordo tra comunisti e Spa per l’abolizione immediata della monarchia, il 4 novembre scorso è iniziata la prima fase del processo di pace. Il Parlamento ha approvato un disegno di legge che prevede la fine della regno e l’inizio di una nuova repubblica e ha stabilito l’adozione di un sistema elettorale a rappresentanza proporzionale. Un cambiamento voluto dalla sinistra che ora chiede di fissare una data definitiva per l’elezione dell’Assemblea costituente; un passaggio obbligato per dichiarare definitivamente morto il Regno del Nepal e che avrebbe dovuto tenersi nel giugno scorso ma che ha gia subito due rinvii.

La definizione dell’Assemblea non è però la sola tappa che caratterizza il cammino verso la democrazia. La componente di cui poco si parla è la questione sicurezza e gli accordi che verranno presi tra le Forze Armate nepalesi e l’Esercito popolare di liberazione, braccio armato del Partito Comunista attualmente monitorato dagli uomini della Missione delle Nazioni Unite in Nepal (Unmin). I vertici militari si sono già espressi negativamente riguardo l’ipotesi di una possibile integrazione dei soldati maoisti nelle fila dell’esercito regolare e a quanto pare nessuno dei sette partiti dello Spa sembra pronto a promuovere una riforma legislativa in tal senso. La stessa comunità internazionale non ha avanzato questo tipo di richieste, conscia del fatto che questo rimane un punto estremamente delicato e che attualmente nel Paese la sicurezza e la legalità possono essere garantita dalle sole Forze Armate.

Altra cosa importante è l’istituzione di una commissione che indaghi sui fatti avvenuti negli ultimi dieci anni, sulla morte di 13 mila persone, sulla scomparsa di circa 1000 nepalesi e sulle centinaia di migliaia di profughi costretti a fuggire oltre confine. Un armadio pieno di scheletri che nessun leader politico vuole aprire perché tutti sanno quante e quali sono le mani che si sono macchiate del sangue degli innocenti. E così, più che di una commissione di inchiesta si parla già di comitato di riconciliazione, una soluzione che le associazioni per i diritti umani rifiutano ma che potrebbe trovare d’accordo di maggioranza e opposizione. Una questione delicata che come in ogni altra guerre sarà ripresa solo dopo molti anni, quando la maggior parte dei personaggi implicati sarà morta, scomparsa o sarà diventata intoccabile perché innalzata al ruolo di eroe nazionale.

L’ accordo di pace tra i maoisti di Prachanda e l’alleanza tra i partiti della coalizione democratica è sicuramente stata la mossa che ha permesso di abbattere la monarchia nepalese. Un accordo legato ad una finestra temporale limitata alla sola vittoria politica che è nato dalla necessità di rovesciare un regime che basava la sua forza sui contrasti interni all’opposizione. Ora però che il re Gyanendra non è più un problema i due maggiori soggetti politici del Paese tornano ad affrontarsi: da un lato il Partito del Congresso dall’altro il Partito Comunista.

Il primo, di ispirazione riformista moderata, ha origini socialiste e nonostante negli anni si sia convertito ad una visione più liberale dell’economia di mercato, fa ancora parte dell’Internazionale socialista. Fondato nel 1947, è stato guidato per lungo tempo dal suo attuale leader, il premier Girija Prasad Koirala, uomo politico di grande esperienza famoso per essere stato diverse volte primo ministro (dal 1991 al 1994, dal 1998 al 1999, dal 2000 al 2001, dal 30 aprile 2006 e dal 1° aprile 2007) e per la sua esacerbata opposizione al comunismo.

Il Partito Comunista è invece guidato da Pushpa Kamal Dahal, rivoluzionario di impronta maoista il cui nome di battaglia, Prachanda, significa il fiero. Avvicinatosi al marxismo ancora in età scolare, nel 1994 è diventato leader del Partito Comunista Maoista Nepalese e capo della rivolta che ha portato alla guerra popolare del febbraio 1996. Da allora i comunisti controllano molti distretti, soprattutto nel Nepal occidentale, e questa egemonia ha permesso a Prachanda di sedersi al tavolo delle trattative consapevole della sua forza.

Tra i 20 punti proposti alla coalizione di maggioranza, Prachanda ha chiesto la ristrutturazione dello Stato in senso federale, la riforma agraria, l’espropriazione di parte dei terreni ai grandi latifondisti e la loro re-distribuzione alle fasce sociali più povere, la costruzione di infrastrutture e lo sfruttamento delle risorse energetiche. Un programma al quale Koirala sembra storcere il naso anche se l’alleanza con Prachanda ha fino ad ora permesso di gettare le basi per un Costituzione provvisoria.