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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

Il primo gennaio 2008 il “deposto” premier palestinese Ismail Haniyeh ha chiesto all’ex presidente americano Jimmy Carter di intervenire come mediatore nello stallo politico palestinese. Un’apertura che conferma lo stato di profonda crisi che sta affliggendo la Striscia di Gaza e la condizione di difficoltà in cui si trova la stessa organizzazione islamica, asfissiata dall’azione politica dell’Autorità palestinese e da quella militare dello Stato di Israele. Nell’intenzione di Haniyeh non c’è solo la volontà di aprire un tavolo di negoziati con Fatah, ma anche l’urgenza di strappare un milione e mezzo di civili dalla desolante prigionia in cui trovano. Come condizione per l’avvio della trattativa Haniyeh ha però chiesto “l’onore delle armi”: il presidente Mahmoud Abbas deve riconoscere il governo eletto il 25 gennaio 2006. L’appello lanciato a Jimmy Carter, autore del libro sul conflitto israelo-palestinese “Peace, not Apartheid”, manifesta la ferma volontà di non lasciare i territori nelle mani del terrorismo internazionale tentando di inserire Hamas nel dialogo di pace Abbas-Olmert. Il 14 giugno scorso l’Autorità palestinese aveva licenziato Haniyeh e aveva nominato un governo di emergenza guidato da Salam Fayyad, leader del movimento la Terza Via, piccolo partito politico di tendenza centrista vicino alle posizioni di Mahmoud Abbas. Sin da subito Hamas ha valutato la decisione un atto illegale e antidemocratico che va contro i principi della Costituzione e che nega risultato espresso dalle urne. Così, la formazione islamica non ha mai riconosciuto il nuovo governo e ha continuato a controllare la Striscia di Gaza lasciando a Fayyad l’autorità sulla sola West Bank.

La vittoria politica ottenuta nel consultazione del 2006 ha ribaltato lo scenario politico e ha sancito il passaggio del controllo amministrativo dei territori da Fatah, formazione laica riconosciuta da Israele e da gran parte dei Paesi occidentali come unico interlocutore possibile per il processo di pace, ad Hamas, movimento islamico catalogato da Usa ed Europa come organizzazione terroristica internazionale. Ad Hamas sono andati 74 dei 132 seggi parlamentati a disposizione; un rovesciamento di fronte che è ancora più significativo se si pensa che prima delle elezioni Fatah controllava il Consiglio legislativo, precedentemente composto da 88 deputati, con una maggioranza pari al 78%.

Per Haniyeh la parola “legittimità” ha un significato particolare, la realizzazione di un preciso obbiettivo. L’elezione del 2006 ha premiato Hamas non per le qualità di gestione o per il programma di governo, ma piuttosto per le doti di onestà ed integrità, per il rapporto che ha unito la base del movimento alla gente comune. Allo stesso tempo i palestinesi hanno voluto punire Fatah, un partito troppo impegnato da anni nella spartizione dei poteri e troppo concentrato nel dialogo di pace con Israele. In una Palestina asfissiata dalla spirale della corruzione e della violenza, la formazione laica ha progressivamente perso il consenso della gente comune, dei tanti disperati che la storia ha condannato a vivere di sussistenza.

Le tensioni tra Fatah e Hamas che hanno portato alla guerra civile palestinese risalgono al 2005 e più esattamente alla scomparsa di Yasser Arafat, carismatico leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, morto l’11 novembre 2004. Gli attriti sono continuati fino alle legislative del 2006, quando la vittoria di Hamas ha provocato le reazioni di Israele, Stati Uniti, Unione Europea, di parte dei Paesi occidentali ed Arabi. La comunità internazionale decide così di sospendere ogni forma di aiuto economico fino a quando Hamas non avesse riconosciuto lo Stato di Israele, accettato un accordo con Fatah e sospeso ogni forma di violenza.

In un primo tempo l’embargo non ha successo e il movimento islamico continua a ricevere i fondi necessari a garantire l’assistenza sanitaria ed i servizi di base all’interno dei territori. Grazie al sostegno finanziario dell’amministrazione americana, la Guardia presidenziale dell’Autorità palestinese continua però a mantenere il controllo dell’apparato di sicurezza. Washington decide inoltre di armare e addestrare le fazioni armate di Fatah: nella West Bank vengono organizzati due campi di addestramento e, da quanto riportato dalla stampa israeliana, gli Usa finanziano l’impresa con 86 milioni di dollari.

Tra marzo e dicembre si assiste all’assassinio di decine di leader di entrambi i gruppi; le tensioni crescono soprattutto a causa dell’impossibilità di trovare un accordo sulla condivisione dei poteri. Il 15 dicembre Abbas annuncia nuove elezioni, dichiarate subito incostituzionali da Hamas che ancora detiene il governo dello Stato palestinese. Nel tentativo di scongiurare la crisi, l’Arabia Saudita organizza un vertice alla Mecca: le dichiarazioni di buona volontà fatte dal presidente Abbas e dallo sceicco Khaled Meshaal, leader supremo di Hamas in esilio a Damasco lasciano intravedere un lento ritorno alla pace e così, in febbraio, Ismail Haniya viene incaricato dall’Autorità palestinese di formare un governo di unità nazionale.

Il tentativo fallisce e la situazione si aggrava a tal punto che tra l’inizio della crisi e il maggio 2007 si contano già più di 600 vittime. Il 10 giugno ha inizio la battaglia di Gaza; due giorni dopo i militanti del movimento islamico conquistano il Quartier generale di Fatah e ottengono il controllo della parte settentrionale di della città e villaggi di Beit Lahiya e Jabaliya. Il 14 giugno viene conquistata la parte meridionale della Striscia, Rafah, Khan Younis e l’intera città di Gaza. La cocente sconfitta costringe l’Autorità palestinese a destituire l’esecutivo diretto dal premier Haniyeh e a nominare un governo di emergenza guidato da Salam Fayyad.

Fatah si ritira all’interno della West Bank, dove comunque continua a combattere con alcune fazioni del movimento islamico, mentre Haniyeh dichiara un governo separato spaccando di fatto la Palestina in due: Gaza rimane nelle mano delle Forze di sicurezza di Hamas; Ramallah sotto il controllo di Fatah e della Guardia presidenziale. Tutto questo mentre Israele, in soccorso ad Abbas, prepara la sua guerra e isola completamente la Striscia chiudendo ogni varco di accesso. Il conflitto ha infatti inizio il 15 maggio 2007 e vede di fronte le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e l’ala del Comitato di resistenza popolare vicina ad Hamas, appoggiato dalle Brigate al Qassam e dalla Jaish al-Islam, il gruppo che ha rivendicato il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit avvenuto il 25 giugno 2006.

Al lancio di oltre 220 razzi Qassam che colpiscono la periferia di Sderot e le postazioni militari israeliane nel Negev occidentale, Gerusalemme risponde con un massiccio bombardamento aereo e con operazioni terrestri che mirano a colpire i comandi operativi della guerriglia palestinese e i capi del movimento islamico. Nella West Bank vengono arrestati decine di membri dell’ala politica del partito, incluse personalità appartenenti al governo Haniyeh. Chiaramente, viste le forze in campo, l’operazione israeliana non è solo tesa ad annientare la minaccia dei razzi palestinesi ma vuole piegare la resistenza di Hamas a favore dell’Autorità palestinese, soffocare Gaza ed aprire le porte della vittoria ad Abbas. Come dicono i francesi: finché c’è terra c’è guerra.

L’attuale situazione palestinese è il risultato di anni di pressioni politiche e di errori, sbagli fatti dalla comunità internazionale che risalgono alla stessa creazione dello Stato di Israele. Nel tentativo di salvare il salvabile Hamas si affida a Jimmy Carter ma per ottenere un successo è imprescindibile risolvere alcune questioni. Senza dubbio il riconoscimento dello Stato di Israele, un argomento che ha sempre diviso israeliani e palestinesi, che ha infiammato i conflitti mediorientali e che ora lacera la stessa Palestina.

Ma non è l’unico problema e non potrà essere risolto fin quando non verranno affrontate altre questioni: la spartizione di Gerusalemme, lo stato giuridico dei profughi e il “diritto al ritorno”, i territori occupati e la loro sovranità, gli insediamenti, i confini del futuro Stato Palestinese e la sua sicurezza. Tutte questioni difficili e complesse che richiedono anche una buona dose di rinuncia e sacrificio ma che possono essere affrontate solo da un popolo unito: la pace di Annapolis è solo una pace a metà ed è destinata a tramontare prima ancora di sorgere.