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Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

“Le elezioni legislative del 18 febbraio saranno libere, eque, trasparenti e pacifiche”: sono queste le parole che ha usato il presidente Pervez Musharraf per convincere l’occidente che la situazione in Pakistan è sotto controllo. Durante il suo viaggio diplomatico a Bruxelles, dove ha incontrato all'alto rappresentante per la politica estera dell'Unione Europea, Javier Solana, Musharraf ha parlato di cooperazione nelle attività intelligence per la lotta al terrorismo, di democrazia e dei successi economici ottenuti dal suo Paese, di elezioni, di rinnovato sistema di scrutinio e dell’importanza del sostegno europeo. La morte dell’ex premier Benazir Bhutto, uccisa il 27 dicembre scorso a Rawalpindi, ha certamente cambiato gli equilibri politici di un Paese già al collasso e i dubbi sul mandante dell’attentato non fanno altro che aggravare una situazione già critica. Pur essendo l’unico soggetto politico in grado di contrastare lo strapotere istituzionale dell’ex Capo delle Forze Armate, il leader del Partito popolare pakistano rappresentava uno dei pochi motivi di cambiamento e una componente di stabilità con la quale Musharraf avrebbe potuto condividere parte del potere. Sul piano interno, la morte dell’ex premier ha ridato slancio all’opposizione e ha reso più forti i suoi eredi politici, ha rilanciato la controffensiva delle formazioni islamiche radicali e delle cellule legate al terrorismo, dei gruppi tribali delle regioni di frontiera e, cosa ancora più grave, ha rafforzato le posizioni dell’establishment militare.

A Washington l’assassinio della Bhutto ha invece riaperto il dibattito sulla necessità di estendere le attività della Central Intelligence Agency (CIA) in Pakistan e di implementare un’azione militare più aggressiva lungo il confine con l’Afghanistan. Secondo un articolo pubblicato sul New York Times, l’amministrazione Bush sta infatti decidendo su come rispondere efficacemente al cambio di strategia attuato da al-Qaeda e dai gruppi Talebani che, nel tentativo di destabilizzare il Paese, hanno intensificato la loro azione in Pakistan. Formalmente non è ancora stato presentato un piano d’azione ma sia la Casa Bianca che il Pentagono si auspicano che Musharraf e il nuovo Capo delle Forze Armate, il Generale Ashfaq Parvez Kayani, autorizzino un’operazione condotta dalla CIA e dagli uomini dai reparti della Special Operation Forces (SOF).

Che gli Usa stessero cambiando strategia e stessero concentrando la loro azione sul Pakistan, bocciando di fatto l’operato del presidente Musharraf, si era già intuito. Tra ottobre e dicembre l’Ammiraglio Eric T. Olson, comandante delle SOF, si era recato più volte a Islamabad per incontrare il comandante delle truppe di Islamabad di stanza nel nord ovest del Paese, il Generale Muhammar Masood Aslam. Durante una delle riunioni aveva visitato il Queartier Generale delle unità di frontiera (Fronter Corps), forze paramilitari composte di 85 mila unità reclutate tra le popolazioni tribali che entro breve tempo dovrebbero equipaggiare ed addestrare dallo stesso esercito Usa. Inoltre, subito dopo l’attentato del 27 dicembre scorso, l’Ammiraglio William J. Fallon, comandante delle operazioni militari americane nel sud ovest asiatico, si è messo in contatto con la sua controparte pakistana per confermare il sostegno di Washington, sia per quanto riguarda il supporto logistico sia in materia di lotta al terrorismo.

Il filo diretto tra Washington e le Forze Armate pakistane comandate dal Generale Kayani, subentrato a Pervez Musharraf il 28 novembre scorso, sembra funzionare perfettamente. Gli Stati Uniti considerano l’ex capo dei servizi segreti pakistani (ISI), già consulente militare di Benazir Bhutto durante il suo mandato da premier, un alleato prezioso, fondamentale per stanare le basi di al-Qaeda nel nord ovest del Paese. Attualmente gli Usa sono presenti in Pakistan con un contingente di 50 militari e un numero imprecisato di uomini della CIA che ufficialmente fungono da supporto intelligence nella lotta al terrorismo e per le operazioni pakistane nelle Aree tribali ad Amministrazione Federale (Khyber, Kurram, Bajaur, Mohmand, Orakzai e Nord e Sud Waziristan) e nello Sarhad. Inoltre, in queste zone la CIA è già intervenuta direttamente durante il 2006 quando ha sferrato un attacco contro il villaggio di Damadola dove si presumeva fosse nascosto il numero due di al-Qaeda, il medico egiziano Ayman al-Zawahri (bombardamento con l’utilizzo dei velivoli senza pilota Predator).

Anche se il segretario alla Difesa Robert M. Gates ha già confermato che l’intervento delle truppe americane è una delle ipotesi più accreditate, a Washington c’è comunque chi pensa che questa rimane un’opzione ad alto rischio. In Pakistan le truppe americane e l’esercito di Islamabad hanno già dato vita ad azioni congiunte lungo la frontiera afgana, operazioni che potevano aver messo a rischi la presenza Usa nel Paese asiatico. Infatti, la morte o la cattura degli uomini delle SOF in territorio pakistano avrebbe scatenato le proteste delle popolazione e messo in ulteriore difficoltà la stessa posizione del presidente Musharraf. C’e anche però chi sposa un’altra tesi: l’intervento statunitense in Pakistan non è altro che l’ultima fase di un piano iniziato con l’invasione in Afghanistan ed in Iraq, un’occupazione che punta a controllare il più occidentale dei Paesi islamici. Un’operazione che ricorda lo spregiudicato sostegno occidentale al regime iraniano dello shah Reza Palavi, un errore che ha trasformato la lotta contro una dittatura imperiale in uno scontro ideologico e culturale tra civiltà.