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di Michele Paris

La moratoria de facto delle condanne a morte in atto negli Stati Uniti d’America dallo scorso mese di settembre, quando la Corte Suprema accettò di deliberare in merito al caso “Baze contro Rees” riguardante la presunta incostituzionalità del metodo attualmente in uso nella pratica dell’iniezione letale, potrebbe risolversi in un vero e proprio boomerang per quanti, sia oltreoceano che in Europa, si auguravano che da tale decisione potesse giungere un passo avanti verso la sospensione definitiva della pena capitale anche in quel paese. Almeno questa è l’impressione che si è ricavata dal dibattito che per la prima volta nella storia americana ha visto i membri del Supremo Tribunale USA entrare nel merito di una simile questione. Tra scambi di battute intorno all’efficacia dei veleni da iniettare per via endovenosa e macabre speculazioni sulle sofferenze patite dai condannati durante le esecuzioni, nessuno spazio ha avuto, come si temeva, una seria riflessione sulla (a)moralità della pena di morte in quanto tale. “La decisione della Corte Suprema potrebbe non essere scontata”, ha fatto notare però Brian Evans, membro del Programma di Amnesty International USA per la Campagna contro la pena di morte. “Gli esiti delle recenti deliberazioni dei membri di questa Corte sono sempre stati molto incerti e quella in merito all’iniezione letale potrebbe non rappresentare un’eccezione”. Ad indirizzarsi alla Corte di Suprema sono stati due condannati a morte detenuti nelle prigioni dello Stato del Kentucky, tali Ralph Baze, autore dell’omicidio dello sceriffo della Contea di Powell e del suo vice nel 1992 nel tentativo di sfuggire all’arresto, e Thomas Clyde Bowling jr., dichiarato colpevole dell’assassinio dei coniugi Edward e Tina Early nel 1990 nonché del ferimento del loro figlio di 2 anni, i quali tramite il loro avvocato di Washington Donald Verrilli jr. si sono appellati sostenendo che il metodo attualmente in uso per le esecuzioni tramite iniezione letale non garantisce nella realtà dei fatti una morte dignitosa nonché priva di dolore e sofferenza e per questo incostituzionale alla luce di quanto contenuto nell’VIII emendamento. La procedura utilizzata oggi da 35 dei 36 Stati americani dove la pena di morte è operativa è appunto l’iniezione letale - ad eccezione del Nebraska che si affida tuttora alla sedia elettrica - per mezzo di tre veleni somministrati separatamente: il primo, denominato Sodium Thiopental, è un potente anestetico somministrato in dose massiccia; il secondo, Pancuronium Bromide, ha lo scopo di paralizzare tutti i muscoli del corpo mentre il terzo, il Cloruro di potassio, determina l’arresto cardiaco.

A partire dagli anni 70 molti Stati dell’Unione decisero di abbandonare quei metodi di esecuzione che causavano inutili sofferenze ai condannati, come la sedia elettrica e la camera a gas, ritenendo l’iniezione letale un’alternativa più umana. Nel 1993 fu poi l’allora Presidente George H. W. Bush ad emanare una legge che proponeva quest’ultimo metodo come il più adatto per eseguire le condanne capitali, senza però dichiarare illegali o incostituzionali gli altri sistemi, comprese la fucilazione o l’impiccagione, spesso usati nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, e lasciando comunque discrezionalità di scelta ai singoli Stati. Negli ultimi due anni nondimeno, si sono moltiplicati i ricorsi ad opera dei legali di numerosi condannati in seguito alle difficoltà documentate durante svariate procedure di esecuzione negli Stati della California, dell’Ohio, della Florida e del Mississippi.

Tra i casi più macroscopici di condanne a morte risolte dopo lunghe e raccapriccianti complicazioni giova ricordare quelli di Angel Nieves Diaz e Christopher J. Newton, giustiziati rispettivamente a Raiford, in Florida, il 13 dicembre 2006 e a Lucasville, nell’Ohio, il 24 maggio 2007. L’esecuzione del primo, dichiaratosi innocente fino all’ultimo dell’omicidio del proprietario di uno strip club di Miami durante una rapina nel 1979, crimine addossatogli dalla testimonianza poi ritrattata di un compagno di cella, e per il quale lo stesso Governatore di Portorico, da dove Diaz proveniva, aveva chiesto la grazia, richiese ben 37 minuti, a fronte dei non più di 15-20 di solito necessari per una procedura di routine, e una seconda dose di veleno per portare a termine la condanna. In seguito alle polemiche che seguirono, un portavoce del Florida Department of Corrections cercò di spiegare che la seconda dose somministrata al detenuto si era resa necessaria a causa di un sua presunta disfunzione renale, circostanza peraltro negata dai familiari, assicurando comunque che Diaz non aveva dovuto patire alcuna sofferenza.

In seguito, l’autopsia effettuata sul corpo del condannato non rivelò alcuna anomalia nei suoi organi ma bensì un errore nell’inserimento dell’ago nel suo braccio. Invece che nelle vene, questo aveva liberato le sostanze chimiche mortali direttamente nei tessuti molli limitandone enormemente l’efficacia e ritardando il decesso. Due giorni dopo la morte di Angel Nieves Diaz, l’allora Governatore della Florida, Jeb Bush, sospese ogni esecuzione in attesa del responso di una commissione appositamente nominata, sospensione in seguito revocata dal suo successore Charlie Crist.

Ancora più agghiacciante, se possibile, si rivelò la procedura di condanna del 38enne Christopher J. Newton, dichiarato colpevole dell’assassinio del suo compagno di cella per futili motivi nel 2001. Nonostante gli indizi di un evidente stato di disagio mentale, la Corte che processò Newton respinse la richiesta dei suoi difensori di sottoporlo ad una perizia psichiatrica, il cui esito positivo avrebbe automaticamente escluso l’esecuzione capitale in base al dettato della Costituzione dello Stato dell’Ohio. Per portare a termine l’insieme delle operazioni necessarie all’attuazione della pena di morte mediante iniezione letale nel caso di Newton ci vollero oltre due ore, durante le quali fu concessa al condannato anche una pausa per recarsi al bagno, e addirittura dieci tentativi fatti per individuare le vene di un uomo il cui peso superava i 120 kg.

In condizioni normali la procedura dell’iniezione letale seguita dallo staff delle prigioni che ospitano un braccio della morte prevede, dopo l’immobilizzazione del condannato, l’inserimento di due aghi (i cosiddetti “IVs” o “intravenous cannulae”), uno in ogni braccio. Soltanto uno di essi in realtà viene utilizzato per la somministrazione dei veleni, mentre il secondo potrebbe diventare necessario solo in caso di un malfunzionamento del primo. Gli aghi, collegati al macchinario dal quale vengono controllate le sostanze utilizzate per l’esecuzione e che è posizionato in una stanza adiacente a quella dove si trova il condannato, così come ogni altro strumento impiegato nell’esecuzione, vengono regolarmente sterilizzati, non solo per la sicurezza del personale addetto alle operazioni ma anche in previsione dell’eventualità di una sospensione in extremis della condanna una volta avvenuto l’inserimento degli aghi nelle braccia del detenuto, situazione verificatasi nell’ottobre del 1983 in Texas per James Autry, poi giustiziato nel marzo successivo. A questo punto, al condannato viene somministrata una soluzione salina che serve ad evitare la mescolanza delle sostanze chimiche che ne determineranno il decesso e a facilitare il loro scorrimento attraverso l’ago. Le funzionalità cardiache del prigioniero vengono costantemente monitorate così da permettere al personale addetto di accertarne la morte.

Come già spiegato, la prima sostanza iniettata nel corpo del condannato induce un rapido stato di incoscienza, seguito dalla paralisi dei muscoli respiratori, ottenuta mediante la seconda sostanza la quale in concomitanza con il cloruro di potassio, che determina l’arresto cardiaco, provoca il decesso. Solitamente viene impiegato del personale specializzato per l’inserimento degli aghi nelle braccia del detenuto così come per il disbrigo delle altre operazioni previste dalla procedura, mentre è proibita la presenza attiva di medici. Prima dell’attivazione del macchinario deputato alla somministrazione dei tre veleni, la scena delle operazioni viene svelata ad un pubblico che funge da testimone e successivamente al condannato viene data facoltà di rilasciare un’ultima dichiarazione. Subito dopo una guardia impartisce il segnale che avvia l’esecuzione vera e propria e il decesso viene dichiarato quando l’attività cardiaca si interrompe, in media entro sette minuti dall’avvio del macchinario.

In seguito alle complicazioni appena descritte, nel 2006 una Corte californiana, presieduta dal giudice Jeremy Fogel, decretò per prima una sospensione delle condanne capitali sulla base di testimonianze mediche che dimostravano le terribili sofferenze patite da svariati condannati a morte tramite iniezione letale. Lo scorso autunno infine, la Corte Suprema decise di occuparsi della causa avviata nel Kentucky determinando una moratoria di fatto di tutte le esecuzioni già decise negli Stati Uniti. A tutt’oggi l’ultima condanna ad essere stata eseguita risale al 25 settembre 2007; a partire da quella data, altre otto esecuzione programmate sono state poi sospese per decisione della Corte Suprema stessa, delle varie Corti d’appello federali o del Presidente Bush. Tale interruzione ha fatto in modo che il numero di condanne eseguite nel 2007 fosse il più basso dal 1994 creando tra gli oppositori della pena di morte l’aspettativa, probabilmente ingiustificata, di una possibile revisione del discusso protocollo dell’iniezione letale tramite i tre veleni.

La maggioranza dei membri della Corte Suprema infatti, sia pure con sfumature diverse, nella prima udienza ha dato l’impressione di essere ben poco convinta dagli argomenti dei postulanti. L’ipotesi più probabile è sembrata così essere quella che prefigurava un interesse della stessa Corte ad occuparsi del caso per dichiarare tutta la questione come non sostanziale e porre fine così al crescente numero di ricorsi ai vari tribunali statali e federali che potrebbero determinare una paralisi a lungo termine delle esecuzioni in tutto il territorio dell’Unione.

Quest’ultimo scenario è stato apertamente prefigurato dal giudice più intransigentemente conservatore Antonin Scalia, nominato membro della Corte Suprema dal Presidente Reagan nel 1986 e da allora strenuo oppositore di ogni tentativo fatto dai colleghi di limitare l’applicazione della pena di morte. “Nino”, come viene amichevolmente chiamato negli ambienti della capitale il primo giudice italo-americano della storia a far parte della Corte Suprema, ha rappresentato la più accesa controparte degli argomenti portati a favore dei condannati del Kentucky per voce dell’avvocato Verrilli. L’opinione di quest’ultimo è che la somministrazione della seconda sostanza chimica per via endovenosa, Pancuronium Bromide, con la sua azione paralizzante impedirebbe al condannato di manifestare l’eventuale sofferenza subita dall’azione del cloruro di potassio nel momento in cui agisce per determinare l’arresto cardiaco.

Il rischio non necessario di causare atroci patimenti sarebbe infatti dovuto ad una ipotizzabile scorretta somministrazione dell’anestetico da parte di personale, a detta dello stesso Verrilli, non sufficientemente addestrato allo scopo. Una soluzione più umana potrebbe essere rappresentata invece da una singola dose massiccia di anestetico che non procurerebbe certamente alcun dolore ma porrebbe complicazioni di diverso tipo, in primo luogo perché mai sperimentata finora su esseri umani.

L’assenza di una reale alternativa al protocollo dei tre veleni sembra essere in effetti l’argomento decisivo che potrebbe produrre l’esito negativo dell’intera questione di fronte alla Corte Suprema. Rivelatrice di questa ipotesi è stata la posizione assunta dal giudice Stephen G. Breyer, nominato da Bill Clinton nel 1994, dal quale ci si attendeva un chiaro appoggio alla causa sottoposta dall’avvocato Verrilli per le sue idee liberal e il suo consueto approccio pragmatico alle norme costituzionali. Nel contestare l’efficacia dell’impiego di un singolo veleno nelle esecuzioni, Breyer ha fatto riferimento ad alcuni studi scientifici a suo dire estremamente confusi e ad una pubblicazione olandese sull’eutanasia che riteneva tale metodo non sempre efficace nel determinare il decesso.

“Stiamo discutendo di un’esecuzione, non di un intervento chirurgico”, ha tagliato corto da parte sua Antonin Scalia, già sostenitore della pena capitale anche per i minorenni. A suo parere nella Costituzione non esiste alcun riferimento alla necessità di procurare la minima sofferenza possibile al condannato a morte. “Questa Corte in passato ha approvato l’impiego della sedia elettrica e della fucilazione, due metodi che ritengo possano infliggere maggiore dolore rispetto all’iniezione letale”. Effettivamente, nessun metodo può essere dichiarato incostituzionale, tuttavia l’VIII Emendamento proibisce esplicitamente l’adozione di “punizioni crudeli e insolite”.

Scalia ha cercato poi di stroncare sul nascere anche le ipotesi avanzate da altri membri della Corte Suprema di rispedire la questione alla Corte statale del Kentucky. Di questo avviso era il giudice David H. Souter, scelto da Bush padre nel 1990, ma solitamente schierato con i colleghi liberal durante le votazioni, il quale auspicherebbe così un allungamento dei termini sulla decisione finale e un approfondimento sull’effettiva efficacia di una singola somministrazione di anestetico. “La Corte deve prendere una decisione sulla questione”, ha sbottato però Scalia. “In caso contrario continueranno a giungere ricorsi sulla base di presunti nuovi metodi di esecuzione e le condanne verrebbero sospese a tempo indefinito in tutto il paese”, ha paventato lo stesso giudice.

Con il membro anziano John Paul Stevens, nominato nel 1975 da Gerald Ford ma anch’esso su posizioni generalmente progressiste nonostante il netto favore per la pena capitale, ancora titubante tra la fiducia nella procedura tenuta dalle prigioni del Kentucky e il dubbio di costituzionalità del metodo dei tre veleni, l’unico vero membro della Corte Suprema che potrebbe aver maturato già da ora una decisione favorevole ai due condannati è Anthony M. Kennedy, nominato da Reagan nel 1998 e spesso favorevole in passato a deliberazioni volte a limitare l’uso della pena di morte. Durante il dibattito preliminare infatti Kennedy è rimasto in disparte, atteggiamento questo che secondo gli osservatori, in caso di decisioni incerte, preluderebbe ad una sua scelta di campo a favore dell’ala liberal.

A segnare il confine tra le istanze presentate dall’avvocato Verrilli in nome dei detenuti del Kentucky Baze e Bowling e le posizioni delle principali associazioni americane in lotta per l’abolizione della pena di morte, Amnesty International, Human Rights Watch e Death Penalty Information Center in primo luogo, c’è la rinuncia da parte di queste ultime ad avanzare proposte alternative all’iniezione letale secondo il protocollo dei tre veleni.

“Amnesty International accoglierà con favore qualsiasi eventuale pronunciamento della Corte Suprema volto a rivedere o limitare l’uso della pena capitale, compreso un rinvio del caso in questione alla Corte del Kentucky, poiché ciò prolungherebbe la moratoria già in atto”, ha affermato Brian Evans. “La crudeltà e la disumanità della pratica dell’iniezione letale sono ormai evidenti a tutti dopo le complicazioni incontrate in numerose esecuzioni negli ultimi anni. La nostra opposizione alla condanna a morte in quanto tale è però totale, in quanto crediamo non vi sia alcun metodo umano per giustiziare un essere umano. L’unico modo per evitare che una punizione non sia crudele e inusuale [secondo il dettato dell’VIII Emendamento, ndr è l’abolizione della pena capitale stessa”.

Al di là delle questioni sollevate dalla discussione in corso, che avrà il suo responso definitivo da parte della Corte Suprema presumibilmente entro il prossimo mese di giugno, il confronto tra sostenitori e oppositori della pena di morte negli Stati Uniti si sta intensificando ormai da qualche anno e la tendenza, nonostante le differenze culturali e di sensibilità che ancora caratterizzano l’opinione pubblica d’oltreoceano rispetto a quella europea, sembra essere inevitabilmente quella di un lento prevalere del rifiuto di essa come ultimo strumento di punizione. Reintrodotta nel 1976, dopo la sospensione stabilita dalla Corte Suprema nel 1972 in occasione del caso “Furman contro Georgia” per sospetta incostituzionalità, l’esecuzione capitale in America ha fatto da allora 1099 vittime, delle quali 53 nel 2006 e 42 nel 2007.

“È ragionevole confidare in una futura abolizione della pena di morte anche nel nostro paese”, sostiene il rappresentante di Amnesty International. “Non ci aspettiamo certo un passo significativo in questo senso dalla questione attualmente in discussione alla Corte Suprema, tuttavia essa, assieme al calo delle sentenze eseguite negli ultimi anni, è altamente simbolica del crescente scetticismo e dell’ambivalenza dell’opinione pubblica americana in proposito”. A suo dire, “la tendenza generale è quella di un declino del sostegno alla pena di morte come dimostra una recente indagine condotta dall’Istituto Gallup che ha rivelato come il 48% dei cittadini americani interpellati dichiari di ritenere la prigione a vita, senza possibilità di libertà vigilata, la pena più adatta nei casi di omicidio a fronte del 47% che si schiera tuttora a favore della pena di morte”.

Questa inversione di rotta dell’opinione pubblica USA tuttavia non sembra essere dettata da una presa di coscienza dell’immoralità della pena di morte in quanto tale ma piuttosto dalla sua scarsa efficacia come deterrente nonché dalla fallibilità della giustizia a stelle e strisce. “Gli americani appoggiano in grande maggioranza la pena di morte come estrema punizione a livello teorico, ma in maniera sempre crescente si oppongono ad essa nella pratica”, ha spiegato Brian Evans. “La loro sempre maggiore diffidenza è dovuta alla natura irreversibile della condanna in caso di errore giudiziario e quelli documentati negli ultimi anni sono purtroppo sempre più numerosi. Ad alimentare i dubbi vi sono poi i casi di molti detenuti condannati a morte e successivamente liberati (attualmente 126) in seguito alla revisione dei rispettivi processi e infine i pregiudizi insiti in un sistema giudiziario che usa due pesi e due misure nei confronti dei cittadini ricchi e di quelli più poveri”.