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di Michele Paris

Smaltita la sbornia elettorale del Supermartedì che ha decretato la praticamente certa conquista della nomination in casa repubblicana del Senatore dell’Arizona John McCain in seguito all’abbandono della corsa del favorito dei Conservatori, il miliardario mormone Mitt Romney, l’esito delle primarie di sabato 9 febbraio in Louisiana e dei caucus in Nebraska e Washington, consultazioni tutte favorevoli a Barack Obama, ha contribuito ulteriormente a complicare il vero e proprio testa a testa in corso tra i due candidati democratici. Nonostante il leggero vantaggio nel computo dei delegati finora accumulati, 1.095 contro i 1.070 di Obama secondo secondo una proiezione Associated Press, Hillary Rodham Clinton dovrà fare i conti con la crescente ondata di entusiasmo che il 46enne Senatore dell’Illinois sta risvegliando il tutto il paese e con una nuova serie di primarie in calendario a breve termine, dove i sondaggi la danno in difficoltà prima di un possibile recupero, salvo ulteriori sorprese, negli importanti appuntamenti del 4 marzo in Texas e Ohio. Nel caso poi la partita tra i due non dovesse essere decisa nemmeno a primavera inoltrata, saranno allora i 796 Superdelegati (“unpledged delegates”) del Partito Democratico, secondo i media americani favorevoli alla ex First Lady, a risultare decisivi nella Convention di Denver a fine agosto. Ma anche in questo caso gli equilibri potrebbero cambiare considerevolmente nei prossimi mesi. I responsabili della campagna elettorale di Hillary Clinton nelle ore immediatamente successive alla chiusura dei seggi nei 22 Stati interessati dalle primarie di martedì scorso si erano affrettati a sottolineare il primato in termini di numero di delegati conquistati dalla Senatrice di New York, nonostante i “soli” 9 Stati nei quali aveva prevalso rispetto ai 13 dove Obama aveva trionfato, e il fatto di aver frenato la rimonta del suo contendente in competizioni chiave come quelle della California, del New Jersey e, soprattutto, del Massachussets dove il Senatore afro-americano aveva ottenuto l’appoggio di Edward M. Kennedy e del candidato alle presidenziali del 2004 John Kerry.

Questo entusiasmo, tuttavia, era apparso più che altro come un sospiro di sollievo per la scampata sconfitta nelle roccaforti clintoniane, ad eccezione del Connecticut, poiché a ben guardare i margini di vittoria avevano rivelato una generale erosione dei consensi a favore di Obama, il quale non più di due settimane prima del Supermartedì veniva penalizzato nei sondaggi con distacchi abissali e le cui chances di vittoria nei suddetti Stati erano state esageratamente ingigantite dalla maggior parte dei media sull’onda della sua affermazione in South Carolina. La regola dell’assegnazione dei delegati secondo il sistema proporzionale in casa democratica aveva inoltre permesso a Obama di raccogliere comunque un bottino non trascurabile sia in California (163 contro i 207 della Clinton) che in New Jersey (46 a 54) e Massachussetts (38 a 55).

Analizzando i dati dei sondaggi snocciolati in questi giorni da giornali e televisioni d’oltreoceano, si evince chiaramente come le scelte dei partecipanti alle primarie democratiche siano state finora determinate dal senso di appartenenza di genere, razza, età e posizione sociale piuttosto che dall’identificazione ideologica nelle posizioni di due candidati che, a differenza di quelli disponibili in ambito repubblicano, non presentano sostanziali differenze nei rispettivi programmi. A livello generale, si sono espressi in maggioranza per Obama, oltre agli afro-americani, la cui scelta peraltro non era così scontata come si potrebbe pensare visto il tradizionale feeling della popolazione americana di colore con Bill Clinton, i giovani e gli uomini con un’educazione universitaria e un reddito superiore ai 50.000 $.

Ad accordare il loro voto in maggioranza a Hillary Clinton sono state invece le donne, gli anziani, gli appartenenti alla “working-class” preoccupati dalle difficoltà dell’economia e gli ispanici. Questi ultimi in particolare, assieme a difficoltà tecniche verificatesi in molti seggi che hanno penalizzato gli elettori indipendenti, hanno avuto un peso decisivo nel determinare la vittoria della Clinton in California dove 3 elettori su 10 registrati come democratici sono appunto ispanici.

L’evoluzione dei comportamenti in cabina elettorale di quanti stanno partecipando alle primarie del Partito Democratico ha visto però in queste ultime settimane una complessiva tendenza a favorire il recupero di voti, in maniera più o meno marcata a seconda dei vari contesti, di Barack Obama anche in quella fetta di elettorato che i Clinton pensavano di avere già in cassaforte. Il sostegno assicurato a Obama da personalità come Edward M. Kennedy, molto apprezzato dai “latinos” per le sue posizioni a sostegno degli immigrati, Oprah Winfrey e Maria Shriver, moglie del governatore della California Schwarzenegger e nipote di Jonh Kennedy, gli hanno permesso infatti di ottenere una maggiore visibilità tra l’elettorato femminile e ispanico.
Ma è soprattutto il formidabile messaggio di cambiamento e pacificazione che Obama sta diffondendo in un paese lacerato da sette anni di Presidenza Bush e da una logorante guerra in Iraq che sembra essere senza fine a rappresentare il vero punto di forza del giovane senatore nato alle Hawaii da padre keniano e madre del Kansas. Anche se, probabilmente, una parte del suo successo è indubbiamente il risultato di un prodotto mediatico con ben pochi precedenti, nessuno può sottovalutare l’aspettativa di un nuovo corso e il ritrovato entusiasmo per la politica che la sua presenza sta sollevando.

Una marcia davvero straordinaria quella di Obama, testimoniata dall’enorme afflusso di denaro a beneficio della sua causa: 32 milioni di dollari nel solo mese di gennaio, dei quali il 90% raccolto da donazioni fatte on-line, dall’appoggio ottenuto da numerose personalità della cultura, della politica, dello spettacolo e dei media americani e ancora più sorprendente alla luce della sua recentissima apparizione sulla scena politica. Il suo ingresso al Senato risale infatti solo al 2004 e, nonostante le battaglie sostenute da allora sul controllo delle armi, sulla trasparenza dell’amministrazione pubblica e sul riscaldamento climatico, ben poco di concreto a livello nazionale può essere ascritto a suo beneficio per presentarsi come il paladino di un nuovo corso della politica americana post-Bush.

La sua opposizione fin dall’inizio al conflitto iracheno, a differenza dell’appoggio ad esso accordato dalla Clinton e poi ritrattato, ha comunque contribuito non poco alla sua immagine di uomo nuovo. Solo il crescente sgomento delle famiglie americane a basso reddito nei confronti di una recessione economica ormai in atto, assieme naturalmente ai consolidati legami stabiliti dal clan clintoniano con gran parte delle organizzazioni sindacali e di partito locali, potrebbe arrestare l’ondata di entusiasmo che grazie a Obama ha riavvicinato milioni di giovani americani alla politica.

Fuori discussione è anche la maggiore eleggibilità del Senatore dell’Illinois rispetto a Hillary Clinton nell’ottica di una sfida nell’elezione vera e propria con il candidato repubblicano John McCain. Una volta risolti i contrasti con l’ala più rigidamente conservatrice del suo partito, McCain, noto per molte sue posizioni “liberal” in campo sociale ed economico, avrebbe infatti la capacità di raccogliere un considerevole numero di consensi tra gli elettori che non si riconoscono in nessuno dei due partiti maggiori e forse anche tra non pochi democratici moderati avversi ai Clinton.

Dall’esito delle primarie finora svolte, in campo democratico è stato appunto Obama ad essere riuscito ad attirare i voti degli indipendenti, decisivi nelle presidenziali di novembre, come dimostra anche il suo successo nello Stato del Missouri, considerato dagli esperti un microcosmo della società americana (“bellwether State”) e quindi un banco di prova fondamentale per i candidati alla Casa Bianca. A conferma delle maggiori chances di successo di Obama a novembre c’è anche un recentissimo sondaggio commissionato unitamente dal Washington Post e da ABC News, il quale indica come McCain sarebbe in vantaggio su Hillary Clinton a livello nazionale di 3 punti percentuali (49% a 46%), mentre Barack Obama prevarrebbe invece sul 71enne Senatore repubblicano con lo stesso margine.

I risultati delle consultazioni che si sono tenute sabato in Nebraska, Washington e Lousiana, e che hanno fatto registrare altrettante vittorie di Obama, nei primi due Stati addirittura in maniera schiacciante (68% in entrambi contro il 32% e il 31% rispettivamente della Clinton), potrebbero ripetersi nei prossimi appunamenti in Maryland, Virginia e District of Columbia (“Potomac primaries”) di martedì 12 febbraio, almeno secondo i sondaggi, e dare così un’ulteriore spinta a Obama verso il sorpasso. Una situazione questa che potrebbe rimettere in discussione anche l’esito del Texas e dell’Ohio, dove la Clinton conserva attualmente un buon margine di vantaggio, nel mese di marzo.

I Superdelegati infine, anche se attualmente favorevoli alla Senatrice di New York con un margine di vantaggio indicato intorno ai 90/100, se chiamati in causa per mettere la parola fine alla corsa alla nomination, potrebbero cambiare campo nella Convention di Denver per dare il via libera al candidato con il numero maggiore di delegati raccolti durante le primarie oppure a quello con le maggiori probabilità di prevalere sull’avversario repubblicano. Ma da qui ad agosto per Obama la strada è ancora molto lunga. La sua vera scommessa consisterà nel riuscire a canalizzare il fermento acceso dalla sua presenza sulla scena politica verso le cabine elettorali delle primarie negli Stati che ancora si devono esprimere.