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Categoria: Esteri
di Luca Mazzucato

L'autobomba che ha ucciso Imad Mughniyah a Damasco dà il via ad una escalation i cui sviluppi sono difficili da prevedere. Il capo militare di Hezbollah, al secondo posto dopo Bin Laden tra gli uomini più ricercati al mondo, responsabile di numerosi attentati e dirottamenti a partire dai primi anni ottanta, è stato assassinato dal Mossad il 12 Febbraio. Israele ovviamente nega, mentre si sospetta il coinvolgimento della CIA e di altri paesi arabi tra cui l'Arabia Saudita. La morte violenta di Mughniyah, figura storica della resistenza libanese e cerniera di contatto tra palestinesi, Hizbullah, Siria e Iran scuote il Libano, sull'orlo di una guerra civile, mentre gli israeliani aspettano la pesante rappresaglia di Hizbullah. Indiscusso capo militare del Partito di Dio, Mughniyah inizia la sua carriera come militante di Fatah, per entrare poi in Hizbullah fin dagli inizi. È stato lui a introdurre la strategia degli attacchi suicidi in Medioriente: nel 1983 organizza i due violentissimi attentati all'ambasciata americana e al quartier generale delle forze armate americane e francesi a Beirut, in cui muoiono oltre trecento persone. Per rappresaglia contro l'assassinio di Abbas al-Musawi, segretario generale di Hezbollah, per mano israeliana nei primi anni novanta, Mughniyah organizza i due devastanti attentati contro l'ambasciata israeliana e il centro ebraico a Buenos Aires, dove restano uccise un centinaio di persone. Ha ideato e costruito l'apparato militare di Hizbullah nel sud del Libano ed è il principale artefice del fallimento israeliano nella guerra del 2006. È l'emblema del terrorista internazionale: vissuto nell'ombra da sempre, nessuno sa che faccia avesse, nascosto tra Damasco, Beirut e pare anche Baghdad, fino al 12 Febbraio di quest'anno in cui un'autobomba lo colpisce.

L'esecuzione porta la firma autenticata del Mossad israeliano, nella cui lista dei ricercati compariva al primo posto. Il governo israeliano ha negato risolutamente qualsiasi coinvolgimento nell'attentato. Nel linguaggio diplomatico, laddove un “no comment” rappresenta un'assunzione di responsabilità, una smentita dimostra un atteggiamento più prudente da parte di Israele, che sicuramente ora si trova esposto alla rappresaglia di Hezbollah, che “porterà alla fine del regime sionista,” secondo quanto dichiarato dal segretario generale Nasrallah. L'euforia per l'eliminazione del nemico numero uno è durata solo poche ore a Tel Aviv, durante le quali tronfi generali dell'IDF e politici vari si sono pavoneggiati nei salotti televisivi, vendicati della bruciante sconfitta nella guerra del 2006. Ma quasi subito è cominciato a serpeggiare il panico per la rappresaglia che presto o tardi arriverà, ma non si sa dove né come. Il premier Olmert ha messo in stato di massima allerta ambasciate, centri ebraici, aeroporti e obiettivi sensibili in tutto il pianeta, sconsigliando vivamente i turisti israeliani dal recarsi nel Sinai o in qualsiasi paese esposto a possibili rischi.

La paura della rappresaglia è tanto evidente che sulla stampa israeliana, in particolare su Haaretz, si sta discutendo dell'efficacia di tali assassini mirati. Per eliminare un pericoloso terrorista, si condannano a morte sicura centinaia di ebrei in patria e nel resto del mondo, come sempre è successo in passato. Gli esempi infatti non mancano. L'omicidio di al-Musawi nel 1992 insediò alla guida di Hezbollah il giovane sceicco Nasrallah, che si è dimostrato ben più capace e carismatico del suo predecessore. L'eliminazione nel 1996 di Yihyeh Ayash, detto l'Ingegnere in West Bank, che venne fatto saltare in aria con un cellulare-bomba, portò ad un'ondata di attacchi suicidi che causarono la morte di oltre cento israeliani. Gli assassini dei due capi di Hamas, lo sceicco Yassin e Aziz Rantisi, han portato alla definitiva conferma di Hamas e alla sua conquista della Striscia di Gaza. L'elenco è ancora lungo ma non sembra turbare i pensieri dell'establishment israeliano, mentre forse inizia a far riflettere la società civile ebraica.

L'operazione di intelligence contro Imad Mughniyah è riuscita a portare l'attacco nel cuore del regime siriano di Assad, dove trovano rifugio numerosi nemici giurati di Israele, a cominciare dai capi di Hamas e della Jihad Islamica, che finora ritenevano Damasco al sicuro dalla lunga mano del Mossad. Per questo si sospetta che il Mossad non abbia agito da solo, ma sia stato aiutato, oltre che dalla CIA, dai servizi segreti dei paesi arabi del fronte sunnita, alleati di Bush e che vedono di buon occhio la collaborazione con Israele. Si tratta innanzitutto dell'Arabia Saudita, degli Emirati Arabi e del Kuwait, che stanno affilando le armi in vista di una resa dei conti con l'asse Iran-Siria-Hezbollah, che proprio in Libano, tanto per cambiare, ha il suo punto debole.

Il 14 Febbraio le strade di Beirut sono state percorse da due enormi manifestazioni che hanno messo in scena la profonda frattura presente all'interno della travagliata società libanese. Al funerale di Imad Mughniyah, una folla di sciiti e sostenitori di Hezbollah hanno giurato vendetta contro il nemico sionista, mentre Nasrallah rivelava il dispiegamento di 50.000 militanti armati (cifra sicuramente esagerata) nel sud del Libano, pronti per “l'imminente guerra contro Israele.” Dall'altra parte della città si svolgeva la manifestazione governativa per l'anniversario della morte di Rafiq Hariri, primo ministro libanese filo-occidentale, fatto saltare in aria nel 2005 con una tonnellata di esplosivo nel pieno centro di Beirut. Scontri armati tra le varie fazioni sono all'ordine del giorno a Beirut e nel resto del paese, ma finora le leadership dei vari partiti non hanno rivendicato gli attacchi.

Il tribunale internazionale per indagare sull'attentato ad Hariri sta per essere finanziato proprio in questi giorni da Stati Uniti, Francia, Pakistan e Arabia Saudita con evidenti intenti anti-siriani: potrebbe essere l'occasione per far deflagrare apertamente i conflitti latenti, mentre il paese è privo di un presidente e le istituzioni si trovano bloccate dai veti incrociati di maggioranza e opposizione. L'ipotesi di un coinvolgimento arabo nell'attentato a Mughniyah si è fatta strada nell'ultima settimana sulla stampa araba, ventilando infatti la possibilità che il conflitto tra l'asse saudita e quello iraniano possa sfociare in una guerra civile in Libano. Entrambi gli schieramenti libanesi infatti addossano a nemici esterni le responsabilità della crisi, Siniora addita la Siria mentre Hizbullah considera il primo ministro un burattino nelle mani americane e israeliane.

Alcuni commentatori arrivano a chiedersi se non si profili all'orizzonte un periodo di guerre arabe, che si combatteranno sul suolo libanese e in cui Israele sarà parte attiva nello schieramento saudita. L'estenuante braccio di ferro tra Siria e Arabia Saudita potrebbe dunque sfociare in guerra aperta, esportando il caos iracheno direttamente a Beirut.