Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali

Rafah, domenica 17 febbraio 2008: un morto e 13 feriti. Questo è l’ultimo bilancio delle operazioni israeliane nel sud della Striscia di Gaza; le vittime sono tutti attivisti palestinesi affiliati alle Brigate Al-Qassam, sorpresi dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) impegnate una vasta azione antiterrorismo. L’attacco, avvenuto nei pressi dell’aeroporto internazionale Yasser Arafat, segue gli scontri del giorno precedente registrati nella zona di Al-Qarara nei quali erano rimasti gravemente feriti due militanti del movimento islamico, poi deceduti dopo il successivo ricovero all’ospedale Nasser di Khan Younis. Mentre al confine con l’Egitto proseguiva l’avanzata del tanks della stella di David, a sud-est di Nablus, villaggio di Aqraba, nella West Bank settentrionale, le IDF procedevano ad un’operazione di rallentamento e alla cattura di 12 attivisti. Stessa cosa a Beituniya, nei pressi di Ramallah, e ad Hebron, dove sono stati fermati altri due palestinesi. Nei giorni scorsi erano stati eseguiti altri otto arresti nei distretti di Salfit, Nablus, Jenin e Qalqilia. Oltre alla Striscia di Gaza il giro di vite delle forze di occupazione israeliane colpisce anche la Cisgiordania. Le operazioni di Rafah, così come i rastrellamenti di Nablus, sono la reazione israeliana al lancio di razzi Qassam subito nei giorni scorsi, a loro volta sparati come ritorsione per la morte di un importante capo militare della Jihad Islamica, Ayman Fayed, di sua moglie e dei suoi due figli rimasti uccisi insieme ad altre quattro persone in una potente esplosione avvenuta nel campo profughi di Bureija, a sud di Gaza. Una ritorsione senza fine che esaspera gli animi e crea la condizioni per ulteriori incidenti. La morte del leader palestinese, di cui comunque non sono comunque state dimostrate le responsabilità, ha scatenato la rabbia del Comitato di Resistenza Popolare, gruppo militante alleato di Hamas, e della Jihad Islamica Palestinese, che hanno giurato di vendicare la morte di Fayed, meglio noto come Abu Abdallah, annunciando una serie di attacchi all'interno del territorio israeliano; un ritorno al terrorismo basato su azioni suicide che ricorda la strategia utilizzata dalla stessa Jihad tra il 1995 e il 2005.

Mentre a Gerusalemme est gli israeliani continuano nella loro sistematica politica di colonizzazione, la Palestina conta le sue vittime. Secondo l’agenzia di stampa Ma’an dall’inizio di febbraio gli attacchi delle IDF hanno causato la morte di 38 persone, 29 nella Striscia di Gaza e 9 nella West Bank; la stima, diramata dall’Associazione umanitaria Nafha, comprende sei bambini e una donna. Sale così a 96 il numero dei palestinesi che ha perso la vita nel 2008; non tutti estremisti, tra loro 11 donne e 11 bambini. A questo si aggiunge il dramma dei 500 palestinesi trattenuti dalle forze di sicurezza del Cairo in un complesso sportivo nei pressi di Al-Arish, Sinai settentrionale. I profughi, entrati in Egitto dopo l’abbattimento del muro di Rafah, sarebbero tenuti in custodia in attesa di essere riportati oltre confine.

Intanto, nel controverso quartiere ebraico di Har Homa, nella parte orientale della capitale, a poca distanza da Betlemme, le società israeliane Ir David, Dalia Eliasfor, Mei-Tal, Ish Hiram e Shahab stanno portando avanti la realizzazione di 307 appartamenti; una evidente violazione alla road-map che vieta agli israeliani la costruzione di nuovi centri residenziali all’interno dei territori occupati. Dall’altra parte, lungo il confine settentrionale con la West Bank, gli israeliani hanno intensificato il controllo sul territorio. L’aumento dei posti di blocco di fatto impedisce l’ingresso e l’uscita dal distretto di Nablus. Secondo fonti palestinesi l’entrata sud è ora controllata dal checkpont di Yitzar, riaperto in questi giorni dopo essere stato chiuso per lungo tempo, e da quello di Huwwara, dove le IDF hanno aumentato il numero di soldati presenti; a nord è stato riaperto il posto di blocco di Al-Badhan che paralizza tutto il traffico in uscita dalla città; i palestinesi provenienti dalle aree di Tulkarem, Jenin e Qalqilia possono transitare solo se di età inferiore ai 35 anni. In molti casi, per superare la cintura di sbarramento occorrono anche tre ore; un modo per scoraggiare le organizzazioni terroristiche ma anche una limitazione della libertà personale e un grave danno a coloro che hanno bisogno di muoversi per ragioni di studio o di lavoro.

La vera minaccia per i palestinesi però non sono solo le truppe israeliane. In una intervista alla televisione satellitare Al-Arabiyya, Jibreel Rajoub, membro del Consiglio Rivoluzionario di Fatah, ha affermato che per la causa palestinese il vero pericolo è rappresentato dalla divisione politica tra Hamas e Fatah, una frattura che sta lacerando la Palestina e che potrebbe generare una perdita di identità e la rinuncia del diritto ad esistere come Stato; un effetto ancor più dirompente quindi delle ripercussioni causate dal processo di pace. La minaccia è che la frattura ideologica apra le porte ad un processo politico che porti alla restituzione della Striscia di Gaza all’Egitto e della West Bank alla Giordania. Se le paure di Rajoub si avverassero il più grande dei problemi mediorientali, la nascita dello Stato di Palestina, sarebbe definitivamente chiuso. I Paesi arabi riconquisterebbero gran parte dei territori persi nel 1967; Israele si scrollerebbe di dosso un pesante fardello; la comunità internazionale chiuderebbe una questione che non ha mai saputo gestire. Ai palestinesi non rimarrebbe altro che vivere in una terra non loro, da profughi.