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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

Sono sessanta i morti? O settanta? Arriveranno a centinaia con la prossima ondata dei caccia con la stella di David? Non si sa. Le cifre, quando si parla di Gaza, cambiano persino da quando si comincia a scriverne a quando si finisce. Difficile del resto, quanto forse inutile, aggiornare con numeri l’infamia di un’assedio che non distingue combattenti da civili, uomini da bambini, colpevoli da innocenti. La contabilità dei morti palestinesi sembra infatti proporre niente altro che dei numeri a supporto dell’indifferenza generale. Gaza, del resto, non è un paradiso fiscale, non produce petrolio e non è una lobby: Gaza è il luogo che non c’è, la striscia dove ammassare rifugiati di una terra e rifiutati della geopolitica, che non sono amici dell’Occidente, non rappresentano una causa ma un problema. Non suscita emozione, non provoca indignazione, non comporta reazioni, men che mai una crisi diplomatica; al massimo qualche scarno comunicato, più frequentemente qualche alzata di spalle. I raid arerei dell’aviazione israeliana, che bombardano Gaza senza distinguere, con il solo scopo di uccidere, distruggere e terrorizzare, sono la conseguenza, prima che dei missili “Quassam” di Hamas su Sderot prima e su Ashkelon poi, di una politica israeliana che tende a ridurre a puro scontro militare la questione israelo-palestinese. I colloqui tra Tel Aviv e l’Anp sono già lettera morta, come ha annunciato Abu Mazen e le esili possibilità di trovare un accordo - per quanto provvisorio - giacciono sotto le macerie delle case distrutte. I raid sono figli di esigenze - in qualche modo speculari - di Olmert da un lato ed Hamas dall’altro, entrambi alla ricerca disperata di un’affermazione della loro esistenza, prima ancora che della loro leadership. Ma, oltre questo, i raid sono in primo luogo la conseguenza di una occupazione israeliana illegale ed illegittima, che denuncia come sia ormai l’apartheid contro i palestinesi la quinta essenza del cosiddetto “modello democratico” israeliano.

Hamas ha intensificato il lancio dei nuovi “Qassam” per tentare di ribadire il suo ruolo nel negoziato e ridimensionare con la forza il ruolo di Abu Mazen. La sua linea politica, prima che demenziale, è fatta di “tanto peggio, tanto meglio”. Hamas è pronta a pagare anche il costo di una invasione israeliana e delle centinaia, forse migliaia di morti che questa comporterebbe. Gioca la partita sia sullo scacchiere regionale che all’interno del mondo palestinese, dove si propone – prima che alternativamente ad Abu Mazen nella gestione amministrativa – come forza egemone sul piano militare, cercando d’intercettare la disperazione diffusa in una popolazione che non vede ormai nessuna speranza per la pace.

Olmert dal canto suo bombarda Gaza nel tentativo di dimostrare come la disfatta della sua ultima invasione del Libano sia stata solo un incidente di percorso e cerca di ribadire la supremazia militare israeliana in vista di possibili, per quanto labili, approcci di riassetto geopolitico dell’area. Ha bisogno di una vittoria Olmert; di ribadire il potere di deterrenza israeliano, il suo imprescindibile ruolo nel processo politico regionale. Per raggiungere questo obiettivo non si tirerà indietro nel decidere una possibile invasione di terra della striscia di Gaza, costi quel che costi. Se vuole infatti recuperare un minimo di credibilità interna e ricostruire l’immagine della potenza bellica agli occhi di Washington da un lato e del mondo islamico dall’altro, il macellaio del Libano non può che scegliere la via dell’ulteriore escalation militare. Sapendo che difficilmente la sua carriera politica finirà dove dovrebbe finire: davanti ad un Tribunale Penale Internazionale che dovrebbe giudicarlo per crimini di guerra.

Tenterà quindi con ogni mezzo di eliminare il gruppo dirigente di Hamas e rimettere il potere in mano all’Anp, per provare a convincere la comunità internazionale (che tanto dorme sonni tranquilli) come il nemico non siano i palestinesi tutti ma solo gli estremisti; per dimostrare in qualche modo vaghi quanto suggestivi link di collegamento tra Al Queda, Hamas ed Hezbollah da spendere propagandisticamente nella fantasmagorica “guerra al terrorismo”. Tenterà di colpire a fondo la stessa Hamas con la quale flirtava anni addietro per piegare l’Olp, poi reinsediatasi al governo con lo stesso aiuto israeliano questa volta in funzione anti-Hamas. Ultimo tassello di un puzzle di cinismo ed spregiudicatezza politica, quello israeliano, teso a destabilizzare sempre e comunque il governo palestinese. Quale che sia stato il governo in carica, infatti, l’atteggiarsi di Tel Aviv è stato un attentato continuo alla pace destinato al suo vero, unico obiettivo: il mantenimento della guerra, il rifiuto del negoziato, l’indisponibilità di dare anche solo il via ad una soluzione politica del conflitto arabo-israeliano.

L’aggressione alla Striscia di Gaza serve a ridare popolarità a Olmert, ad esibire un certificato di esistenza in vita ad uno dei governi più screditati della storia israeliana. Per fare questo l’insulso premier israeliano ha bisogno di fermare il lancio dei missili “Quassam” da parte di Hamas e per riuscirci non indietreggerà davanti a niente, soprattutto se quel niente è innocente. Colpisci e terrorizza, questa l’essenza della politica regionale di un governo che risulta ancora una volta ostaggio sia della destra religiosa che della sua stessa incapacità.

Una volta di più, a beneficio di coloro che proprio non vogliono vedere, nel gioco dell’indifferenza generale accumula punti l’Unione Europea: che non muove un dito e non apre bocca, confermandosi così un nano politico e per giunta in ginocchio davanti ad uno scenario che pure - per responsabilità storica e vicinanza geografica - dovrebbe riguardarla da vicino. I palestinesi muoiono a grappoli, schiacciati dai signori della guerra, nemici giurati con identici obiettivi. Tace e dorme Bruxelles, mica ci sono banche da salvare.