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Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari

Rottura delle relazioni diplomatiche, invio di battaglioni armati di tutto punto e tanks alle rispettive zone di frontiera con la Colombia, accuse di servilismo, assassinio, menzogne e violazioni d’integrità territoriali ad Alvaro Uribe, il maggiordomo degli Stati Uniti in America latina. Il presidente del Venezuela Hugo Chavez e quello dell’Ecuador, Rafael Correa, hanno reagito nel modo più duro all’assassinio di Raul Reyes, portavoce delle Farc colombiane, ad opera delle truppe speciali dell’esercito di Bogotà. L’assassinio di Reyes e di altri guerriglieri è avvenuto in pieno territorio ecuadoregno, attraverso un attacco aereo al quale ha fatto seguito l’irruzione dei corpi speciali di Uribe che hanno finito a freddo con decine di proiettili i membri delle Farc. Nessuna resistenza da parte dei guerriglieri, colpiti in piena notte. Le truppe speciali di Uribe erano penetrate per diversi chilometri in territorio ecuadoregno, in flagrante violazione dello spazio territoriale di Quito. La cosa, ovviamente, non poteva rimanere sotto silenzio. Il presidente colombiano pensava forse che con una telefonata al suo collega ecuadoriano Correa, avrebbe avuto modo di risolvere rapidamente la questione, ma così non è stato. La reazione è stata durissima. Chavez ha ordinato l’invio di dieci battaglioni corazzati alla frontiera tra Colombia e Venezuela ed ha ammonito Uribe a non tentare neppure di provare a ripetere il giochino con Caracas – “saremmo pronti a difendere la nostra integrità fino alle ultime conseguenze” ha detto il presidente venezuelano. Stesso discorso, parola più parola meno, lo ha pronunciato Rafael Correa, che ha deciso anch’egli l’invio di truppe dell’Ecuador al confine con la Colombia e che, insieme a Chavez, ha decretato la rottura delle relazioni diplomatiche con la Colombia con chiusura delle rispettive ambasciate, ordinando simultaneamente l’espulsione degli ambasciatori di Uribe da Quito e Caracas ed il ritiro degli ambasciatori venezuelani ed ecuadoregni da Bogotà. Contemporaneamente, i due presidenti hanno deciso di chiedere l’immediata convocazione del Consiglio dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) affinché emerga un energico pronunciamento di tutto il continente contro il banditismo colombiano.

Dure anche le reazioni di Brasile, Argentina e Cile. Buenos Aires, per bocca del suo ministro degli Esteri, Jorge Taiana, si è detta “costernata e preoccupata per l’evidente violazione della sovranità territoriale dell’Ecuador” e Micelle Bachelet, solitamente moderata, ha definito come “grave ed illegittima” l’operazione militare colombiana in Ecuador. Un isolamento internazionale, quello che ha colpito il governo di Uribe, che per toni e livelli raggiunti non ha precedenti. Perché seppure appaiono scontate quanto giustificate le dure prese di posizione di Cuba, della Bolivia e del Nicaragua (Managua tra l’altro è nel pieno di una crisi diplomatica con Bogotà), tutti Paesi che, comunque, nella regione hanno un notevole peso, risultano inedite quanto significative le proteste che provengono anche dall’altra parte dell’Atlantico, prime tra tutte quelle francesi e poi quelle italiane. Da Parigi, il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, ha definito una “pessima notizia l’uccisione dell’uomo con cui parlavamo per favorire la trattativa destinata alla liberazione di Ingrid Betancourt” e il suo collega italiano, Massimo D’Alema, ha definito l’operazione militare colombiana “in contraddizione con gli sforzi fatti per aprire canali diplomatici”.

Ed è proprio questo il punto. L’uccisione di Raul Reyes e dei suoi compagni ha avuto come scopo principale quello d’interrompere ogni possibile trattativa sulla liberazione della signora Betancourt. Sono anni che ogni sforzo intrapreso da Parigi e da Caracas, da L’Avana e dalla stessa Colombia, viene sistematicamente attaccato – e non solo politicamente e diplomaticamente – dal governo di Uribe, preoccupato oltre misura di ciò che la liberazione della senatrice potrebbe significare per la politica interna colombiana. Ma, prima ancora che dei calcoli politico-elettorali del maggiordomo colombiano della Casa Bianca, la preoccupazione imperante colombiana è quella di vedere uno schieramento internazionale che non consente più al governo di Bogotà di proseguire nella sua campagna di sterminio al riparo da occhi e bocche indiscrete. In gioco, è evidente, c’é anche il possibile riconoscimento internazionale delle Farc come “forza belligerante”, viatico indispensabile per accreditare una trattativa con le istituzioni colombiane ed internazionali. Molto più comodo, per Uribe ed i suoi padroni di Washington, continuare a definire tout-court “terroristi” le Farc e, in virtù di ciò, proseguire nella guerra sporca contro ogni opposizione colombiana che ha prodotto massacri di molto superiori, per ampiezza numerica e continuità storica, di quanti sia possibile tollerare anche a stomaci forti. Solo che, questa volta, il terrorismo di Stato colombiano ha sconfinato. E non è detto che Uribe, al netto dei proclami, abbia fatto la scelta più conveniente. Avere amici solo a Washington, potrebbe risultare poco opportuno nei rapporti con il resto della regione. C'é il rischio che il costo dell'uccisione di Raul Reyes, si riveli alla lunga molto più esoso di quello che il presidente colombiano aveva preventivato.